L’Italia ancora una volta è bocciata dalle istituzioni internazionali. Questa volta è l’Ocse, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, che mette l’Italia come fanalino di coda tra i paesi sviluppati per quanto riguarda il mercato del lavoro. Le previsioni sono fosche con un’economia in recessione per tutto il 2012 e il 2013 e la disoccupazione che crescerà fino a sfiorare il 10% nel prossimo anno. I dati Ocse forse sono quasi ottimistici perché il Fondo monetario internazionale prevede una recessione ancora più dura.



Le ricette dell’organizzazione che raggruppa le maggiori economie mondiali riguardo il mercato del lavoro sembrano andare nella direzione opposta a quella del ddl del Governo. Si prescrive infatti che “riduzioni negli stipendi reali, per renderli più conformi alla produttività potrebbero dare una spinta alla competitività e conterrebbero la disoccupazione”. Che il rapporto tra costo del lavoro e produttività sia elevato in Italia non è certo una novità. Negli ultimi anni il nostro Paese ha perso una decina di punti percentuali di competitività rispetto ai grandi paesi europei, Germania in primis. Quindi è necessario agire sui due fronti: quello dei salari lordi (teoricamente da abbassare) e quello della produttività (da aumentare).



In primo luogo, è da comprendere se gli stipendi reali siano davvero da diminuire. I dati qui sono chiari. In Italia gli stipendi non sono molto elevati come ha ricordato l’istituto di statistica europeo Eurostat pochi giorni fa. Bisogna anche però sottolineare che il cuneo fiscale italiano è uno dei più elevati d’Europa a causa dell’eccessiva tassazione sul lavoro. Lo stipendio netto non è dunque elevato, soprattutto a causa del cuneo fiscale. Quindi per recuperare competitività è necessario abbassare la tassazione sul lavoro. E questo non è fatto dalla riforma del lavoro che anzi tende ad aumentare i costi del lavoro. La riforma dunque va esattamente in direzione opposta da quanto suggerito dall’Ocse e questo è il primo punto negativo del ddl del Governo.



Per quel che riguarda la produttività, un suo incremento è necessario per aumentare la competitività delle imprese italiane. Anche in questo caso il nostro Paese si è comportato molto male da quando è nato l’euro. Non essendo più possibile fare una svalutazione competitiva, poiché siamo con una moneta unica, L’Italia non ha saputo fare le riforme atte a migliorare la produttività.

Migliorare il sistema di welfare e di “paracadute” dei dipendenti era necessario e la riforma Fornero sembra migliorare la situazione in questo campo. La riforma del mercato del lavoro avrebbe però dovuto avere come obiettivo quello di migliorare il mercato del lavoro nel suo complesso. La flessibilità in entrata è diminuita, mentre quella in uscita non è cambiata molto viste le resistenze (vincenti) della Cgil.

I costi per l’assunzione sono aumentati, così come la rigidità del mercato del lavoro. Lo scambio per avere la “pace sociale” con la Cgil ha portato al risultato contrario da quanto indicato dall’Ocse. Non è questione tanto di tacciare l’Ocse di iper-liberismo (chi conosce l’organizzazione sa bene qual è la sua posizione) quanto dell’avere fatto una riforma che andrà a peggiorare una situazione che è già tra le peggiori in Europa. Infatti, guardare al solo dato della disoccupazione è riduttivo, perché la “tragedia” italiana è quella di avere oltre un terzo della popolazione attiva completamente fuori dal mercato del lavoro: senza lavoro e senza speranza.

La riforma Fornero forse aumenterà giustamente le garanzie per qualche centinaia di migliaia di persone che tragicamente perderanno il posto di lavoro, ma aumenterà il numero di persone che perderanno ogni speranza di entrarci.