Questa volta non si è messa a piangere. Ma quasi. Si è commossa. E’ stata la stessa Fornero a raccontarlo. La commissione Lavoro del Senato ha approvato la sua riforma e tanto è bastato a emozionarla, portandola sull’orlo di nuove lacrime in pubblico. Per la verità, l’iter parlamentare è tutt’altro che compiuto. L’idea è di trasformare il disegno di legge in legge prima di giugno; ma il provvedimento deve ancora passare al vaglio di Camera e Senato. Sta di fatto che il ministro dà la riforma per acquisita. E parla già del futuro. Fa sapere che le modifiche all’articolo 18, togliendo alcune tutele e rendendo più semplici i licenziamenti, contribuiranno all’ammodernamento del sistema. E che, al più presto, misure analoghe andranno intraprese anche per il pubblico impiego. Abbiamo chiesto all’avvocato del lavoro Cesare Pozzoli di aiutarci a interpretare le parole del ministro.



Il Ddl approvato in commissione rende, effettivamente, più semplice licenziare?

Non si può certo dire che la disciplina sui licenziamenti, con l’attuale disegno di legge, venga smantellata. La riforma, in parte, riduce l’ambito di operatività della reintegrazione prevista dall’articolo 18, ma lascia aperte svariate problematiche in materia di licenziamenti disciplinari ed economici. E, laddove modifica effettivamente la normativa vigente, lo fa introducendo una tutela economica per il lavoratore che, per l’azienda, potrebbe rivelarsi estremamente gravosa. Un indennizzo pari a 12-24 mensilità potrebbe, infatti, rappresentare un esborso decisamente rilevante.



Quindi?

Non possiamo certo dire di trovarci di fronte a una liberalizzazione epocale, ma a un piccolo passo avanti nella direzione della flessibilità in uscita.

Tale maggiore flessibilità sarebbe, come ha detto il ministro, auspicabile anche nel pubblico impiego?

In realtà, sebbene negli ultimi anni siano state approvate varie norme tese a uniformare la legislazione del lavoro privato e pubblico, in quest’ultimo comparto licenziare rimane nei fatti pressochè impossibile. Sia per quanto riguarda i licenziamenti per motivi soggettivi che per motivi oggettivi. Muoversi verso un’uniformità tra disciplina pubblica e privata sarebbe, effettivamente, necessario.



Se da un lato la Fornero auspica licenziamenti più semplici, dall’altro afferma che il contratto a tempo indeterminato aumenta la produttività, in virtù della fiducia che contribuisce a creare tra i soggetti coinvolti. 

L’affermazione coglie un aspetto vero. I contratti a tempo indeterminato hanno la caratteristica di fidelizzare, nel tempo, i lavoratori. Consentendo, spesso, di sortire risultati maggiori. Tuttavia, non di rado, può anche prodursi una dinamica opposta. Può capitare che il lavorare, sentendosi ormai del tutto al riparo, perda lo sprint iniziale e si appiattisca nella ruotine quotidiana. 

Se neppure il tempo indeterminato è sufficiente per innescare circuiti virtuosi, allora cosa suggerisce?

Si possono individuare una serie di stimoli alla competitività quali bonus, premi di produzione, piani di partecipazione dei dipendenti all’azionariato aziendale e, quando occorre, una maggior differenziazione retributiva a seconda della qualità del lavoro svolto. L’appiattimento generalizzato non funziona quasi mai: occorre mettere al centro la persona.

La Fornero ha fatto sapere che la spending review sarà “tostissima”. Se si taglia la spesa dovrebbero, in teoria, diminuire anche i costi. E’ auspicabile, quindi, una riduzione del costo del lavoro?

In Italia il cuneo contributivo, ovvero l’incidenza dei contributi previdenziali sul lavoro dipendente, rappresenta un unicum in tutta Europa. E, effettivamente, tagliare la spesa previdenziale dovrebbe consentire, contestualmente, l’abbattimento dei costi. Non mi risulta, tuttavia, che misure del genere siano contemplate nella spending review avviata dal Governo. 

Crede che si sia persa un’occasione, con la riforma, per diminuire il costo del lavoro?

Con la riforma aumenta il carico contributivo delle collaborazioni a progetto e dei contratti a termine mentre vengono ridotti gli ammortizzatori sociali. Questi ultimi, tuttavia, vengono contestualmente destinati a una platea allargata. Per ora, quindi, non è possibile stabilire se il saldo sia attivo o passivo.

 

(P.N.)