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Fin dal suo insediamento il Governo Monti ha espresso l’intenzione di far evolvere il mercato del lavoro verso un equilibrio occupazionale basato su una maggiore fluidità e dinamicità. Nel corso del confronto con le Parti Sociali, tuttavia, il progetto di riforma elaborato dal Governo ha subìto un profondo mutamento di contenuto, perdendo di incisività anche sul versante della nuova disciplina dei licenziamenti. A che punto siamo oggi, e come ci siamo arrivati? Che cosa è cambiato rispetto al periodo precedente la Riforma?



Alla fine di gennaio il Ministro del Lavoro ha presentato alle parti sociali la bozza di un progetto che prevedeva la sperimentazione di un nuovo regime applicabile alle nuove assunzioni e ispirato ai principi della flexsecurity. Questo piano avrebbe consentito: da una parte di mettere a frutto la disponibilità delle Regioni e delle imprese interessate a farsi carico degli oneri per il sostegno del reddito e per l’assistenza intensiva ai lavoratori licenziati con il supporto delle migliori agenzie di outplacement; dall’altra, di sperimentare un “nuovo diritto del lavoro” semplificato, disegnato per essere agevolmente applicabile a tutta l’area del lavoro dipendente e strutturato in modo da evitare che le potenziali tensioni prodotte da una riforma inficiassero i rapporti di lavoro regolari già in essere.



I nuovi “ammortizzatori” avrebbero potuto essere adottati con la gradualità richiesta da un periodo di grave recessione, com’è quello attuale, programmando un’entrata a regime progressiva, sperimentale e applicabile ai nuovi rapporti lavorativi che da quel momento si fossero stabiliti. Senonché, a questo primo progetto le Parti ne hanno contrapposto uno alternativo, che prevedeva una modifica un po’ meno incisiva dell’articolo 18 dello Statuto del 1970, ma con effetti estesi a tutti i rapporti di lavoro, inclusi quelli già in essere.

Tale proposta può riassumersi così: attrazione della materia del licenziamento individuale per motivo oggettivo nell’area di applicazione della disciplina del licenziamento collettivo, con predisposizione di una procedura di esame congiunto in sede sindacale adeguatamente ridotta; modifica dell’articolo 18, con attribuzione al giudice – in caso di giudizio negativo circa la validità del licenziamento – della facoltà di condannare il datore di lavoro alla reintegrazione, oppure al solo indennizzo.



La scelta del Governo di accoglimento di questa proposta ha comportato che il fulcro del confronto politico si spostasse su un progetto indubbiamente molto più ambizioso quanto ad ampiezza dell’ambito di applicazione, ma altresì più limitato per quel che riguarda la portata innovativa del sistema di protezione della sicurezza economica e professionale dei lavoratori dipendenti. Da qui il “braccio di ferro” tra componenti di sinistra e di destra della maggioranza di Governo. Mille discussioni, quindi, ma per arrivare dove?

L’idea è che il reintegro debba riservarsi ai casi nei quali siano in gioco la dignità, l’onorabilità o la libertà morale del lavoratore, quindi anche in caso di radicale insussistenza del motivo economico-organizzativo addotto dall’imprenditore, mentre la sanzione indennitaria è riservata ai casi in cui:

 – il motivo economico sia ritenuto sussistente, ma non sufficiente per giustificare il licenziamento;

 – il motivo sia ritenuto insussistente ma non si ravvisino indizi di discriminazione;

 – la reintegrazione sia ritenuta dal giudice non suscettibile di produrre una ripresa utile della collaborazione, così come avviene in Germania;

 – il lavoratore stesso abbia concorso con la propria colpa – ancorché non tale da giustificare pienamente la massima sanzione disciplinare – a causare lo scioglimento del rapporto.

Alcuni commenti. Il fatto che solo per le ragioni discriminatorie si sia mantenuto il regime precedente di reintegro unito a indennità potenzialmente illimitata, fa comprendere sia la gravità giustamente attribuita alle forme di discriminazione che, al contempo, la durezza complessiva del precedente sistema, che oggi viene fortunatamente riformato. Parlare di “radicale insussistenza del fatto” lascia, probabilmente, eccessivo spazio discrezionale al giudice nel definirne le fattispecie; tuttavia, la limitazione, in tal caso, a 12 mensilità massime di indennizzo costituisce un importante passo avanti per permettere alle aziende di conoscere il costo, seppur ingente, del licenziamento. Negli altri casi viene fatta chiarezza cancellando la reintegrazione e definendo con precisione l’intervallo di indennità.

In questo quadro rimane delicata la questione del licenziamento per scarso rendimento, non dipendente da disabilità o malattia in fase acuta: l’assenza di certezza circa l’esito del possibile giudizio continua infatti a costituire un problema per persone e aziende. Infine, sulla disciplina del procedimento giudiziale in materia di licenziamento, vengono introdotte due novità di rilievo che dovrebbero ridurre tempi e incertezze: l’istituzione di un “tentativo di conciliazione” – rapido per legge, obbligatorio e che consiglia l’utilizzo dello strumento dell’outplacement – che si configura come una sorta di “primo grado di giudizio”; e l’attivazione di una corsia privilegiata rispetto a tutte le altre cause di lavoro.

Il disegno del Governo sembra insomma essere quello di adottare una disciplina che faccia della sanzione indennitaria la regola generale e di quella reintegratoria un rimedio straordinario, riservato a una ristretta minoranza di casi. Il che va, anche se non pienamente, nel senso della riduzione degli spazi di interpretazione dei giudici e rende molto più agevole l’identificazione di un’indennità in cui siano già noti i minimi e i massimi. Tutto ciò contribuisce a rassicurare le aziende che, in questo modo, possono conoscere in anticipo le eventuali conseguenze delle proprie decisioni. Si è persa invece l’occasione di corresponsabilizzare l’azienda nel supportare il lavoratore licenziato a trovare una nuova occupazione.

Qualche passo avanti è stato dunque compiuto. Resta indubbiamente ampio spazio perché la riforma migliori le condizioni di flessibilità in uscita del nostro mercato, anche se sarà determinante – da qui in avanti – la stabilità di queste norme, così come fondamentale sarà l’attuazione di un forte investimento per la comunicazione dei nuovi criteri ad aziende e persone. Non si è certo giunti al massimo livello di semplicità e chiarezza, ma si sta probabilmente andando nella direzione di una maggiore trasparenza e responsabilizzazione delle imprese e dei lavoratori del nostro Paese.

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