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Se c’è un punto della Riforma del lavoro che possiede una forza decisiva – e che infatti viene indicato sin dalle premesse come determinante – esso è certamente costituito dalla volontà di ottenere una maggiore e migliore flessibilità del mercato del lavoro. Affinché il nostro Paese possa tornare a crescere e a misurarsi in modo competitivo in termini di produttività è infatti necessario che si favorisca l’affermarsi di un mercato del lavoro capace di coniugare maggiore sicurezza per le persone con maggiore flessibilità, certezza e trasparenza per le imprese. Per centrare questo obiettivo fondamentale l’ipotesi presentata come “strada maestra” della Riforma era quella di eliminare l’inamovibilità del rapporto di lavoro dal contratto a tempo indeterminato – proprio per potergli restituire il ruolo centrale che gli compete – e, contemporaneamente, mettere ordine nella selva di contratti “in entrata”, utilizzati nel recente passato come antidoti all’eccessiva rigidità del contratto a tempo indeterminato.



Sotto questo aspetto gli interventi del testo della Riforma tuttora in discussione, volti a limitare abusi nell’utilizzo di Partite Iva, lavoro a progetto e associazioni in partecipazione, erano orientati a evitare che consistenti quantità di lavoratori – di fatto dipendenti delle aziende in cui operano – venissero gestiti non solo in modo flessibile, ma da autentici “precari”: problema – quest’ultimo – che colpisce soprattutto i giovani, spesso sottopagati e privi di quelle tutele minime che il nostro sistema, giustamente, garantisce a qualsiasi lavoratore dipendente. Sembrava si potesse dunque compiere un importante passo avanti verso una autentica flexicurity: in realtà se ne è fatto solo mezzo e ora si rischia di farne addirittura uno indietro.



Spiace infatti constatare che, già nel medesimo testo citato, non si è avuto il coraggio di colpire tutte le forme di “cattiva flessibilità”, risparmiando – per fare un esempio – la maggior parte del lavoro gestito da cooperative e in particolare il fenomeno, destabilizzante e pericoloso, degli appalti illeciti. Così come spiace che si sia persa l’opportunità di sottolineare, attraverso opportuni sistemi di incentivazione normativa, il valore del ruolo svolto dalle Agenzie attraverso i contratti in somministrazione, più valido in termini di flexicurity se paragonato al contratto a termine “tradizionale”.



Se infatti il contratto a termine direttamente stipulato tra azienda e lavoratore risulta più rigido quanto alle proroghe applicabili, esso viene però di fatto assimilato al contratto di somministrazione sia per quanto riguarda il contributo dell’1,4% da destinarsi all’Aspi e nel conteggio dei 36 mesi, sia quanto all’applicazione delle causali: e questo persino nella gestione dell’apprendistato in somministrazione. Ancora più incomprensibile è poi il fatto che addirittura i contratti di somministrazione erogati a fronte di assunzioni a tempo indeterminato da parte delle Apl rientrino nelle stesse limitazioni.

Sembrerebbe quasi che si voglia assimilare la somministrazione “qua talis” a un fattore precarizzante, inficiante il rapporto di lavoro. Si arriva addirittura a considerare l’assunzione a tempo indeterminato di persone che poi vengono introdotte nelle aziende clienti attraverso contratti di somministrazione alla stregua di quei contratti a termine – questi sì precarizzanti – che vengono reiterati oltre la loro fisiologica durata e che sono privi delle fondamentali tutele.

Il vero rischio oggi è che, invece di mettere mano alla Riforma per correggere questi aspetti, compiendo il mezzo passo in avanti che manca, ci si trovi nella situazione di fare addirittura un passo indietro. Oltre a quanto accaduto con l’articolo 18, con la reintroduzione della reintegrazione per i licenziamenti per motivi economici, non vorremmo infatti che – seguendo una logica “compensativa” e “concertatoria” che non tenga debito conto delle necessità di miglior funzionamento del mercato del lavoro – il Parlamento decida di ridare spazio alle forme più “selvagge” di flessibilità (Partite Iva e contratti a progetto in primis) vanificando così totalmente le premesse della Riforma.

Vogliamo invece sperare che la saggezza di alcuni tra i parlamentari “bipartisan”, responsabili delle diverse “Commissioni”, possa sostenere il coraggio del Governo nel creare le condizioni per un mercato del lavoro migliore. In questa fase occorrono più che mai veri leader – capaci di decidere – che sappiano limitare davvero le forme di cattiva flessibilità e incentivare le buone, garantendo così la realizzazione di un sistema flessibile ma nello stesso tempo sicuro, certo e trasparente.

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