C’è poco da stare allegri. L’Istat certifica con i crismi dell’ufficialità lo scoramento che sta prendendo gran parte del Paese. Il tasso di disoccupazione ha raggiunto il livello record dal 1999. Nel terzo trimestre 2012 è volato al 10,9%. In Europa, del resto, non se la passano meglio. I disoccupati, infatti, rappresentano l’11% della popolazione lavorativa. In ogni caso, rispetto all’anno scorso, la cose vanno decisamente peggio. Nel primo trimestre dello scorso anno, infatti, il tasso era al 9,9%. Abbiamo perso, in 12 mesi, un punto percentuale. Se, invece, prendiamo in considerazione il solo mese di aprile, ci attestiamo sul 10,2%, in rialzo di 0,1 punti sul mese precedente e di 2,2 punti su base annua. Da gennaio 2004, anno di inizio delle serie storiche mensili, è un nuovo record. Achille Paliotta, ricercatore presso l’Isfol (Istituto per lo Sviluppo della Formazione Professionale dei Lavoratori) spiega a ilSussidiario.net come leggere le nuove rilevazioni. «Tanto per cominciare – afferma -, va detto che i dati mensili rappresentano una stima che, seppur verosimile, necessita di essere verificata e corretta. Di norma, tale certificazione si opera nel momento in cui vengono analizzati e diffusi i dati trimestrali. Quelli, effettivamente, rappresentano un dato di sintesi maggiormente attendibile. In ogni caso, la differenza tra i due dati dipende da una ragione molto semplice: la percentuale sulla disoccupazione registrata nel trimestre deriva dalle media tra le percentuali registrate nei tre mesi interessati».
In ogni caso, entrambi gli elementi ci consentono di comprendere e decifrare l’attuale situazione. «Possiamo, certamente, dire che l’andamento generale è tutt’altro che positivo». Alcune cifre, in particolare, che potrebbero passare inosservate sono decisamente preoccupanti. «Per il secondo trimestre consecutivo – afferma l’Istat – emerge una significativa riduzione degli occupati italiani (-155.000 unità, in confronto allo stesso periodo di un anno prima), dovuto esclusivamente alla riduzione della componente maschile». Di per sé, perché stupirsi dell’aumento della disoccupazione maschile? «Normalmente – sottolinea Paliotta -, in Italia, si è sempre cercato di tutelare maggiormente la figura del padre di famiglia. In numerosissime famiglie, infatti, è attorno alla figura maschile che ruota la possibilità di sopravvivenza economica del nucleo. Se, dovesse essere confermata la tendenza relativa all’occupazione maschile, quindi, significherebbe che lo scenario sta assumendo tinte sempre più fosche. A occhio, del resto, si direbbe che un contesto ove la disoccupazione persista a tali livelli così a lungo, aumentando di mese in mese, non si è mai visto». Il crollo del mercato occupazione deriva dalla congiuntura economica negativa, a sua volta inscindibile dalla crisi.
Gravano, in particolare, una serie di fattori: «Tra i principali, possiamo sicuramente individuare la crisi dei consumi. Se calano gli ordinativi, le imprese faticano a mantenere lo stesso numero di dipendenti. Pesa, inoltre, la stretta creditizia che sta contribuendo, contestualmente all’insolvenza delle pubbliche amministrazioni, all’assenza di liquidità». A oggi, per trascinarci fuori dal pantano, il governo ha fatto poco e niente.
«Non si è vista l’ombra delle politiche per lo sviluppo tanto sbandierate da Mario Monti. Mentre, sul settore della ricerca, fondamentale per il rilancio del Paese, continuiamo a fare passi indietro. A fronte di un ingente sforzo contributivo, a livello europeo, i nostri ricercatori, negli ultimi anni, sono continuamente diminuiti». La riforma del mercato del lavoro, dal canto suo, posto che sia in grado di sortire effetti benefici, questi non saranno apprezzabili prima di due o tre anni, quando andrà a regime. Peccato che non ne sia in grado. «Rappresenta la sintesi di numerosi compromessi, interessi e veti contrapposti. Non si ha avuto il coraggio necessario nel riformare l’articolo 18 e non si è preso in serio considerazione il fatto che, se il provvedimento non è appetibile per le imprese, non raggiungerà l’obiettivo».
(Paolo Nessi)