Quale che sia il giudizio che ciascuno può dare sulla riforma del lavoro, un fatto risulta chiaro: non è previsto alcun incentivo alle aziende per finanziare programmi di politica attiva, né misure volte alla velocizzazione della ricollocazione del personale di interi stabilimenti dismessi, oggi diventata sempre più urgenza usuale piuttosto che emergenza occasionale. Non possiamo però fermarci a una mera posizione critica, sebbene le ragioni non manchino, ma occorre essere propositivi riconoscendo la necessità di una riforma e dando merito a chi se ne prende la responsabilità.



Premessa: quando parliamo di politiche attive per il lavoro non si tratta innanzitutto di “ammorbidire” il periodo di disoccupazione (ad esempio, aumentando i sussidi) o di creare nuove e costose sovrastrutture deputate utopisticamente a risolvere il problema, ma anzi di agevolare e stimolare la responsabilità sociale dell’impresa e la “mossa” responsabile della persona verso la continuità lavorativa, coscienti del valore umano prima che economico del lavoro, come tutti possono rilevare dalla propria esperienza, soprattutto nel momento in cui lo si perde.



Neppure si possono ridurre le politiche attive al solo tema dell’outplacement: esso è solo una delle “gambe” delle azioni che vanno incentivate da una riforma del lavoro, anzi forse una di quelle che ha diminuito il suo “appeal” per i non sempre soddisfacenti risultati ottenuti a livello di progetti di ristrutturazione su larga scala e su grandi numeri di lavoratori. Ed è forse quella meno corresponsabilizzante l’azienda da un punto di vista di coinvolgimento operativo. L’outplacement va sempre considerato, ma a fianco di almeno altre tre direttrici, che nel caso di progetti di questo tipo, si sono rivelate molto efficaci anche nell’attuale fase critica:



A) La reindustrializzazione e la riconversione dei siti produttivi: oltre che per la valenza di ricollocamento, l’obiettivo è quello di far permanere sul territorio un certo tipo di know how e cultura del lavoro, soprattutto in ambito manifatturiero, in fase di estinzione;

B) Il ricollocamento a partire dalle esigenze delle aziende sul territorio: cioè la ricerca di aziende che su quel territorio, pur non potendo reindustrializzare il sito, devono crescere e possono ereditare il know how accumulato a condizioni incentivate. La differenza con l’outplacement è che si parte innanzitutto dalle esigenze aziende del territorio e non dai profili presenti in azienda, in ottica di riqualificazione professionale (vedi punto successivo);

C) La riqualificazione professionale che deve essere non generica, ma finalizzata alle esigenze delle aziende del territorio e di quelle che reindustrializzano. Di conseguenza sempre più spesso la formazione non può che essere fatta “on the job” dall’impresa che assume, che deve vedersi riconosciuto l’investimento di cui beneficia tutto il contesto sociale e occupazionale del territorio, data l’evoluzione sempre più rapida delle competenze e dei profili richiesti dal mercato.

Come indurre/incentivare tali politiche all’interno di una riforma del lavoro? L’idea guida è quella di corresponsabilizzare sulla continuità occupazionale, in ottica sussidiaria, tutti gli stakeholders coinvolti nelle operazioni di ristrutturazione: lavoratori, azienda che dismette, Stato, Pubblica amministrazione e istituzioni locali, sindacati, aziende che assumono, associazioni di categoria, ecc., utilizzando efficacemente molti strumenti che già ci sono.

Spesso si dimentica che, a fronte di un’azienda che chiude, e su cui si concentrano troppe volte con accanimento terapeutico le risorse disponibili quasi sempre a fondo perduto, ce ne sono altre che vogliono e possono crescere, anche in un periodo di crisi “perfetta” come il nostro, e che vanno egualmente agevolate.

Di seguito si propongono alcuni spunti, da sviluppare e approfondire, nati dall’esperienza in progetti di riqualificazione industriale, tutti sostanzialmente a costo zero, in alcuni casi a saldo positivo, per lo Stato e per le aziende:

Per la reindustrializzazione: una volta verificato e “blindato” l’impatto occupazionale e l’approccio non speculativo del subentrante, basterebbe garantire da parte della Pubblica amministrazione iter semplificati, rapidi, certi nei tempi e nei costi e quindi convenienti economicamente nei confronti dei progetti di ristrutturazione che comportano modifiche delle infrastrutture, oneri di costruzione e urbanizzazione, cambi di destinazione d’uso, ecc. Attraverso i già esistenti sportelli unici per le imprese potrebbero essere gestiti iter più veloci e a minor costo, tenendo conto che ancora oggi in molti casi risulta maggiormente oneroso reindustrializzare l’esistente piuttosto che costruire un nuovo capannone, nonostante vi sia abbondanza di aree dismesse da riqualificare. Tale iter semplificato diventerebbe un elemento di attrattività anche per gli investimenti esteri sul territorio, visto che questo punto è citato in tutte le indagini come uno dei maggiori freni a stabilirsi nel nostro Paese per le aziende multinazionali.

Per il ricollocamento: dovrebbe essere obbligatorio, anche all’interno degli accordi sindacali, che almeno la metà del budget complessivo per la buona uscita (o incentivo all’esodo) del lavoratore sia destinato quale incentivo alle aziende che assumono e a coprire il costo del processo di ricollocamento, svolto con l’ausilio di terze parti specializzate e accreditate. I rappresentanti sindacali più illuminati stanno già proponendo accordi di questo tipo. La Cig potrebbe essere concessa solo alle aziende che mettono in campo questo tipo di politica attiva. Inoltre, va anche incentivata la responsabilizzazione del lavoratore che, al rifiuto di offerte di lavoro procurate dal processo di ricollocamento, dovrebbe smettere di poter fruire della Cig e di ogni altro tipo di aiuto (su questo punto basterebbe fare davvero rispettare le leggi già in essere sulla Cig): non sembra giovare a tale proposito la misura della riforma che considera rifiuto solo quello verso offerte maggiori del 20% in retribuzione dell’indennità, riducendo peraltro al solo criterio economico la valutazione dell’opportunità di lavoro.

Cciaa, Comuni, Provincie, Centri per l’impiego, Regioni, associazioni di categoria, dovrebbero dare visibilità dei loro database di aziende sul territorio all’azienda che dismette e, per le associazioni di categoria, dare accesso ai propri canali di comunicazioni sulle incentivazioni disponibili per chi assume e/o reindustrializza.

Tali misure dovrebbero far diminuire, a parità di condizioni, le ore di Cig a carico dello Stato. Le risorse risparmiate potrebbero essere destinate in quota parte:

A risparmio netto per lo Stato;

Alle aziende che assumono, sotto forma di sgravio contributivo (maggiore dell’attuale per la mobilità) come riconoscimento del lavoro di riqualificazione che comunque devono fare, a patto che l’assunzione sia a tempo indeterminato o determinato, ma superiore a 10-12 mesi. Inoltre, i voucher regionali per la formazione, in questi particolari casi di ristrutturazione, dovrebbero potersi spendere da parte dei lavoratori direttamente verso il nuovo datore di lavoro che lo forma internamente. E dovrebbero essere previste forme di contratto di apprendistato anche per lavoratori non più giovani sempre più costretti a riqualificarsi a qualsiasi età (Regione Lombardia ha recentemente attivato provvedimenti al riguardo).

Alle aziende che dismettono, sotto forma non solo di sgravio dei contributi alla mobilità per chi viene da essa stessa ricollocato (è una legge che già c’è, ma poco conosciuta e utilizzata e comunque potenziabile), ma anche, per esempio, di sgravio contributivo alla Cig per le persone mandate in distacco (equivalente a un periodo di prova presso l’azienda che assume ma in cui il lavoratore è ancora in Cig e in forza all’azienda che dismette) presso aziende che potrebbero poi assumerle.

Già in altri paesi sono in vigore leggi che obbligano chi licenzia a “ripristinare” i posti di lavoro che cancella e che stimolano la responsabilità di aziende e lavoratori in tale direzione. C’è davvero da sperare che questa lacuna, una vera e propria voragine all’interno della riforma, possa essere in qualche modo ovviata, prendendo spunto dalle esperienze in atto più positive, all’interno del promesso pacchetto per la crescita, vista la stretta relazione tra politiche attive del lavoro e sviluppo.

Leggi anche

I NUMERI/ Il nuovo legame tra occupazione ed economia che la politica non vedePIL E LAVORO/ Le macerie dietro i dati in miglioramentoPIL E LAVORO/ L'alternativa a rivoluzioni e "vaffa" per la ripartenza dell'Italia