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Nei mesi che hanno preceduto la discussione sulla Riforma, più parti hanno sottolineato l’assoluta necessità di utilizzare strumenti di politica attiva per dare un impulso nuovo e vigoroso al mercato del lavoro.
Due le ipotesi più significative emerse a riguardo.
Innanzitutto, il disegno di legge Treu-Cazzola, che prevedeva l’obbligo per le aziende, in caso di licenziamento, di farsi carico di un progetto di sostegno alla ricollocazione del lavoratore. L’intenzione ultima era quella di dare una risposta concreta al problema principale, costituito dal fatto che una persona viene a trovarsi, improvvisamente e spesso drammaticamente, senza lavoro (e non solo senza un sussidio!).
L’altra proposta ipotizzata era quella del Senatore Ichino, che suggeriva – a fronte di un articolo 18 che si auspicava potesse diventare ben più flessibile di quello attualmente delineato dalla Riforma – che fosse l’azienda a farsi carico del costo per il disoccupato dell’eventuale secondo anno di ammortizzatori, dopo un primo anno pagato dall’INPS. Questo scenario avrebbe incentivato – e non poco – le aziende ad individuare una nuova occupazione per le persone licenziate, se non altro per evitare l’onere di un extra-costo.
Cosa è accaduto, invece, al termine dell’iter di discussione della Riforma? Purtroppo l’articolo 18 è cambiato meno di quanto si potesse sperare e nessuna delle due ipotesi richiamate ha visto la luce.
A tutt’oggi, infatti, all’interno del procedimento di conciliazione obbligatoria – assai interessante per la coattività e tempestività con cui viene disciplinata – la nuova norma si limita sì a suggerire che all’atto della conciliazione le Parti concordino un progetto di supporto alla continuità professionale del lavoratore, ma non prevede alcuno strumento finalizzato ad incentivare l’attuazione di tale progetto, né tantomeno a renderlo vincolante.
Va però – a ben guardare – positivamente rilevato che parlare di progetti di sviluppo di ricollocazione professionale in sostituzione o ad integrazione dei tradizionali sussidi, era, fino a poco tempo fa, assolutamente impensabile!
L’esperienza fatta in questi anni dalle APL, sia di tipo generalista che specializzate nel supporto alla ricollocazione, ha dimostrato – su un target sufficientemente ampio ancorché non completamente rappresentativo della totalità delle situazioni – che il sostegno alla ricerca del lavoro attraverso progetti specifici, sviluppati da società altamente professionali, ha un effetto positivo nel ridurre il tempo medio di ricollocazione (che si è attestato negli ultimi anni tra i 5 e i 6 mesi per circa il 90% dei soggetti presi in carico). Questa esperienza positiva è efficace per l’azienda che deve licenziare, per la persona che deve trovare una nuova occupazione, per l’azienda che assume, per lo Stato che incassa le imposte e per le APL che svolgono il proprio lavoro . Inoltre ha finalmente messo in discussione il principio ideologico del sussidio passivo, che vige da tempo immemorabile, e ha contribuito ad aprire un varco, per ora più culturale che normativo, di fondamentale importanza per i soggetti che operano nel mercato del lavoro. In che modo? Indicando – nei fatti – come sia meglio affrontare la fatica di un percorso attivo, che sembra avere effetti non immediati, ma il cui valore si dimostra ben più alto per le parti sia per il presente che per il futuro.
Questo, però, è solo l’inizio: spetta oggi alle APL e ad Assolavoro promuovere la conoscenza dell’outplacement anche attraverso l’erogazione di servizi di grande qualità e alle Parti Sociali tocca farsi carico dell’educazione dei propri iscritti nel sostenere gli oneri connessi a questo strumento per poter beneficiare, poi, degli onori. Infine, i responsabili delle politiche pubbliche hanno il compito di proporre progetti di sussidio attivo che evitino inefficaci spargimenti di risorse comuni, ormai esangui, e che, viceversa, conducano a valorizzare in modo selettivo tali risorse per la costruzione di un bene per tutti.