Il problema, come sempre, è il pollo. E il problema del problema, ancora una volta, come ogni volta, è che chi conta i polli si dimentica del gallo, dei pulcini, delle uova, e persino del cibo per le galline. Perché lo sanno anche i polli – scusate l’insistenza – che se un cristiano mangia un pollo e suo fratello no, al contadino importa ben poco, tanto lui sempre un pollo ha venduto. Invece la differenza c’è, come sanno bene quelli che di polli ne mangiano per tre e quelli che l’odore delle crocchette non lo sentono nemmeno da lontano.



Vecchio come la statistica, il pollo del poeta torna ciclicamente, travestito di quel che si vuole. L’ultimo pollastro, in ordine di tempo, serve a far salire il Pil. O meglio, considerata la condizione, serve a farlo cadere un po’ più piano. Dunque, dice il sottosegretario all’Economia Gianfranco Polillo – questa non è una ripetizione – che noi italiani lavoriamo poco, solo nove mesi all’anno. E che se lavorassimo una settimana in più, cioè in buona sostanza se facessimo una settimana di ferie in meno, a parità di busta paga s’intende, il nostro Pil avrebbe ben altro passo.



È vero. Il ragionamento non fa una piega. E hanno un bel dire i difensori dei diritti eternamente acquisiti, delle rendite di posizione a costo zero, delle pensioni per tutti dai cinquant’anni in là vita natural durante, hanno un bel dire ad alzare la voce. Perché lo sanno anche le galline che se la compagnia di giro dei tutelatori delle tutele provasse a difendere per una volta chi i sacrifici li fa sul serio, o li vuole fare, altro che Pil in rialzo, e altro che spread col Bund. Il punto è che però quei nove mesi di lavoro all’anno, detti così, restano un poco in gola.

Perché qui sui polli bisogna proprio intendersi. Ed essere chiari: a chi la togliamo la settimana di ferie? E per chi? Facciamo allora due conti da contadino. Non la possiamo togliere a chi non lavora nemmeno una settimana all’anno. Non la possiamo togliere a chi lavora anche la domenica. Non la possiamo togliere a chi vorrebbe lavorare “almeno” nove mesi all’anno, per mangiare e far mangiare qualche pollo in più, ma proprio non ce la fa, e dunque è un po’ come in ferie forzate. Non la possiamo togliere a chi lavora sempre e quando chiude bottega non lavora più.



E allora a chi? Ovvio, a quelli come il Merisio che di mesi all’anno ne lavorano undici. Fortunato lui, si dirà. E quelli come lui. Ma qui il contadino ha qualche problema: qual è la formula magica che, riducendo a tre settimane l’anno il tempo di riposo del fortunatissimo e onesto lavoratore, aiuta anche gli altri a stare un po’ meglio, a mangiare anche loro una quota di pollastro?

All’umile e ignorante fattore, questo trucco non è molto chiaro. Soprattutto se quella settimana di lavoro in più per tirare il fiato manco gli viene pagata. Anzi, va persino in perdita. Perché se anche non è più molto di moda un certo modello di nucleo famigliare, talvolta capita ancora che i Merisi d’Italia quando lavorano debbano magari far custodire la prole da qualcuno, generalmente retribuendolo anche per il bene suo.

Fortunati loro, si dirà ancora. Eh già. Finché non torna la schiavitù, questa è la condizione. E chissà che non ci siamo molto lontani. E allora sì che il Pil farà festa. Spaghetti, pollo e patatine.