Un ricorso non si può non fare, e il Lingotto lo farà: ma la sentenza del Tribunale di Roma, che prescrive alla Fiat di assumere 145 iscritti alla Fiom-Cgil nella fabbrica di Pomigliano dove il loro sindacato si era opposto al nuovo contratto Fiat potrebbe non essere così sgradita a Sergio Marchionne, grande capo del gruppo automobilistico italo-americano ancora provvisoriamente basato a Torino. Per la semplice ragione che, con tutta evidenza, Marchionne non crede più all’Italia e alla convenienza di mantenervi insediamenti produttivi.
Non ha, ovviamente, intenzione di sbaraccare: sarebbe un suicidio, gli asset vanno sfruttati finché ce n’è, e non a caso il guru del maglioncino, dopo aver buttato discredito sul sistema-Italia come habitat manifatturiero con ogni termine, ha detto che è pronto a delle “partnership” per valorizzare la capacità produttiva scarica dei suoi stabilimenti. In pratica, si è detto disponibile a dare in affitto ai produttori asiatici, affamati di potenza industriale, le sue fabbriche semi-deserte.
Cos’ha in mente? Niente di particolarmente geniale, né di diabolico: semplicemente un ragionamento cinico, proprio di chi non ha altri vincoli che il proprio interesse, e guarda al mondo e ai suoi mutevoli equilibri economici come alla propria unica bussola. Marchionne sa che non sarà certo il mercato europeo quello in cui costruire il futuro della Fiat. Sa che oggi gli utili arrivano dal Brasile per i marchi italiani (e un po’ dalla Turchia) e dal Nordamerica per quelli Chrysler; è verosimile che sappia anche, a dispetto dell’ego ipertrofico che lo contraddistingue, di non avere nel suo portafoglio-prodotti alcun modello in grado di competere con le tedesche, l’Audi, la Bmw e la stessa Volkswagen. E quindi si sta completamente disamorando dell’Italia.
Una sentenza che, come questa di Roma, sbugiarda clamorosamente la linea giuridica del Lingotto altro non è, agli occhi di Marchionne ma anche dei suoi referenti americani, che l’ennesima conferma di quanto sia difficile lavorare in Italia. Per una certa mentalità “yankee”, a nulla valgono i tanti esempi che dimostrano il contrario – dall’Ibm alla General Electric – di grandi aziende anche manifatturiere americane che operano in Italia assai bene e da decenni (anni di piombo compresi) riescono sempre a “trovare la quadra” con i sindacati. Per Marchionne e il suo giro, chi non lavora all’americana è “out”. Confindustria compresa.
E quindi? Quindi la sentenza romana è un argomento colossale a favore della vera, sostanziale strategia di Marchionne: smobilitare il più possibile dall’Italia, dove è “dimostrato” che non si può lavorare in modo competitivo, e smobiliare con l’unico gradualismo imposto non tanto dalle leggi e dalle regole del welfare quanto dall’interesse economico-patrimoniale dell’azienda. Non è una cosa simpatica, né una cosa equa nei confronti di un Paese – l’Italia – che dalla Fiat ha avuto tanto, ma ha anche dato tanto. Però è così. Di italiano Marchionne ha l’atto di nascita e la furbizia. Ma nessun sentimentalismo.
In questo contesto, una cosa brilla per la sua assenza: il governo. E il premier in particolare, per anni consigliere Fiat e finora in più occasioni entusiasta apologeta di Marchionne. Cosa aspetta a convocare la Fiat a Palazzo Chigi e a chiedere conto delle tante promesse abbandonate, se non tradite? Ieri il ministro Passera ha detto che “della sentenza bisogna leggere le motivazioni, ma è qualcosa di cui tenere conto”. È un primo segnale. Ne servirebbero altri, e presto.