Prima le donne, ma anche i bambini. Dopo anni di lotte, di rivendicazioni, di battaglie per i diritti, il femminismo – almeno in una delle sue molteplici varianti, che difende la differenza di genere – si è progressivamente aperto a una considerazione più ampia dell’identità femminile, e quindi della propria missione. Una considerazione che include a pieno titolo la maternità: non in contrapposizione al lavoro e alla realizzazione personale, ma come componente ugualmente essenziale della vita. “Si potrebbe parlare di post-femminismo: c’è più coscienza dei propri diritti, ma anche della propria diversità”, afferma Chiara Valentini, giornalista e scrittrice, autrice di “O i figli o il lavoro”, appena pubblicato per Feltrinelli.



L’alternativa secca del titolo non regge più: le donne, se lo vogliono, devono poter dire apertamente un “doppio sì”, come lo chiamano ormai da tempo dalle parti della Libreria delle Donne di Milano (storica sede del femminismo milanese, dove il libro è stato presentato sabato scorso). “È quasi paradossale”, secondo Valentini, “che un Paese come il nostro, che coltiva un’immagine iconica della maternità, non abbia saputo trarne le conseguenze sul versante lavorativo”. Il difficile intreccio tra i due ordini di problemi risale proprio, secondo Valentini, alla mancata accettazione della diversità femminile da parte del mondo del lavoro: la differenza della madre, insomma, non come handicap, ma come valore e ricchezza da condividere. Purché, naturalmente, si tratti di una libera scelta, senza costrizioni né in un senso, né nell’altro: non esiste un obbligo a lavorare, così come non ne esiste uno ad avere figli.



Ma in quest’ultimo caso, ed è la vera novità, si tratta di un’aspirazione sempre più sentita. Rispetto a quanto accadde con il femminismo degli anni Settanta, oggi – continua Valentini – “il desiderio di avere figli è avvertito in maniera più forte, come aspirazione a una completezza vitale”. Forse per questo c’è chi, dopo aver pienamente vissuto quelle lotte, oggi sembra ritornare sui suoi passi: come Angela Neustatter, femminista inglese di lungo corso, passata dai diritti delle donne a quelli dei loro figli (ha collaborato con l’Unicef e la rivista che dirige attualmente, YoungMinds, si occupa del benessere psicofisico dei minori) fino a chiedersi se la strenua difesa dei primi non abbia nuociuto ai secondi. Buttando via l’acqua sporca, insomma, si è rischiato di buttare via, letteralmente, anche i bambini.



La presa di posizione di Neustatter, che nel suo recente libro “A home for the heart” (in uscita a luglio in Gran Bretagna) rivaluta l’importanza del “focolare” e il ruolo di cura della donna al suo interno, è stata interpretata da molte delle sue lettrici come un voltafaccia. Una sorta di tradimento, insomma, non solo rispetto agli ideali professati un tempo, ma anche alla solidarietà verso le madri lavoratrici, spesso prive della possibilità di una reale scelta e già gravate di sensi di colpa.

Ma se l’auspicio del ritorno al focolare sembra collocarsi ormai fuori tempo massimo, la nuova enfasi sull’infanzia non sembra essere in contraddizione con il credo femminista, visto come pensiero che valorizza la differenza di genere. E quindi, la specificità delle donne: della quale fanno pienamente parte non solo la procreazione, ma la dedizione alle esigenze dei figli e l’attenzione alla loro crescita e alla loro educazione.