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Com’era prevedibile, la Riforma del lavoro si è arenata nelle secche della concertazione. A fronte, infatti, di un mezzo passo a favore di una maggiore flessibilità in uscita – compiuto attraverso modifiche, ahimè, troppo poco trasparenti per poter essere efficaci nel breve – non si è tuttavia voluto procedere nella direzione di una reale “pulizia” delle forme contrattuali spurie che si utilizzano in entrata. Così facendo, un colpo al cerchio e uno alla botte, il risultato, ora sotto gli occhi di tutti, è che i confini della Riforma sono notevolmente disorganici.



Ma c’è di più: l’attuale Testo ha paradossalmente contribuito a ridare voce allo schieramento del “piuttosto che il meglio, è meglio il piuttosto”, dando luogo alla richiesta da parte delle associazioni datoriali di continuare a utilizzare contratti che, in realtà, non garantiscono adeguati diritti a chi lavora. Con la scusa che – essendoci la crisi – piuttosto che non dare lavoro è meglio continuare a usare, sebbene impropriamente, partite Iva, contratti a progetto et similia, si finisce però, ancora una volta, per perpetrare una logica ribassista, che spinge le nostre aziende a non puntare alla creazione di valore, e le persone a condizioni lavorative sempre più impoverite e precarie.



Dobbiamo dunque rassegnarci? Mai. Quali opportunità esistono allora per migliorare quanto fatto? Nel recente decreto sviluppo (approvato “salvo intese”) sono previsti spazi per ragionare su ulteriori iniziative in grado di contribuire alla crescita del nostro Paese: riteniamo che il tema del lavoro, leva strategica fondamentale per lo sviluppo, debba necessariamente essere oggetto di ulteriori discussioni in questa sede, tenuto conto del fatto che, per ragioni di Stato, il recente dibattito alla Camera non ha potuto produrre alcun ulteriore correttivo alla Riforma, quando invece ce ne sarebbe stato un gran bisogno per dare maggiore organicità al provvedimento. Ampi sono quindi gli spazi per una discussione che conduca a una sua implementazione.



Ma da dove partire? Anzitutto dal fatto che il rispetto di minime condizioni contrattuali non può essere delegato a questa o quella forma di rapporto lavorativo: minimi retributivi, istituti contrattuali (quali ferie, malattie, mensilità aggiuntive, Tfr) e contribuzione vanno parificati. Se si ritiene che si tratti di elementi fondanti della società civile tanto da applicarli al lavoro dipendente, non è accettabile che non valgano in ugual misura anche per le altre forme contrattuali. Non ha infatti alcun senso che lavoratori a progetto, con partite Iva, lavoratori in appalto e soci di cooperativa possano essere pagati al di sotto dei minimi retributivi degli equivalenti lavoratori in possesso di un contratto da dipendente, che non abbiano diritto a ferie, Tfr, ecc, e che – per giunta – siano soggetti a contributi ridotti.

Da questo punto di vista è importante notare che il lavoro in somministrazione e il contratto a termine direttamente gestito dall’azienda rispettano già oggi queste condizioni – con costi giustamente più elevati e simili al lavoro a tempo indeterminato – e che l’apprendistato prevede un minor costo, disciplinato dalla normativa e a fronte di espliciti impegni formativi; tuttavia solo le Agenzie per il lavoro con il contratto di somministrazione applicano davvero le condizioni ideali, perché, oltre a garantire i livelli minimi, aggiungono tutele e opportunità per la persona quali la formazione e un efficace sistema di welfare interno. Perché allora togliere l’1,4% a Formatemp per destinarlo all’Aspi? Perché ridurre la possibilità di collaborare attivamente allo sviluppo professionale delle persone, destinando ancora una volta risorse a politiche passive?

Dobbiamo avere il coraggio di tenere diritta la barra del timone – senza ricadere nell’utilizzo di forme contrattuali spurie o cedere alle logiche tipiche delle forme di assistenzialismo – e puntare invece all’utilizzo del lavoro flexsicuro e in grado di far acquisire ulteriore employability, come quello che le Apl possono garantire a persone e imprese. Questo accade con estrema evidenza quando le Agenzie somministrano lavoro attraverso persone assunte a tempo indeterminato, coniugando così il massimo livello di sicurezza per i lavoratori con la massima flessibilità per le aziende. Perché allora non escludere dai 36 mesi la somministrazione di lavoratori assunti a tempo indeterminato? Perché non provvedere all’eliminazione delle fastidiose e inutili causali quando il lavoratore si trova in condizioni di massima tutela?

Altro tema è quello dell’apprendistato in somministrazione: l’apprendistato viene infatti unanimemente considerato il contratto principale di inserimento lavorativo dei giovani. Se così è, occorre sciogliere definitivamente il nodo della reale accessibilità da parte delle aziende a questo istituto che, con il supporto delle Agenzie per il lavoro, potrebbe trovare una diffusa applicazione. A questo proposito Assolavoro ha recentemente presentato un emendamento, finalizzato a consentire l’assunzione in apprendistato senza limiti di contenuto professionale, nell’ambito di un contratto commerciale di somministrazione a tempo indeterminato. Sarebbe assolutamente auspicabile che tale emendamento, ormai condiviso da tutti, venisse recepito nel decreto sviluppo.

Restano poi due grandi temi che il prossimo futuro ci condurrà inesorabilmente ad affrontare: quello del pubblico impiego e quello dei servizi al lavoro, entrambi essenziali per far riacquisire produttività ed equilibrio al nostro Paese. Se infatti vogliamo tornare a essere competitivi è assolutamente necessario che la capacità di generare valore utile per tutti da parte dei lavoratori pubblici sia incrementata e che i costi siano sempre più proporzionati al contributo effettivo; così come è decisivo che i servizi al lavoro diventino reale fattore di sviluppo del nostro sistema, anche attraverso una forte integrazione tra pubblico e privato.

Va poi detto che la Riforma stessa prevede che possano essere attivati tavoli delegati a sviluppare quanto non è sinora stato possibile affrontare: il ddl precisa che il sistema di monitoraggio, istituito in modo permanente presso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, dovrà verificare lo stato di attuazione degli interventi e delle misure previsti dalla legge, valutandone gli effetti sull’efficienza del mercato del lavoro, sull’occupabilità dei cittadini e sulle modalità di entrata e di uscita nell’impiego. Dagli esiti del monitoraggio e della valutazione saranno desunti elementi per l’implementazione, ovvero per eventuali correzioni delle misure, dando così spazio a ulteriori proposte, derivanti – come dichiarato dal ministro Fornero – dall’osservazione della realtà.

Infine, da ora in poi – a partire dall’approvazione della Riforma – resta aperta la possibilità per le parti sociali a livello territoriale, settoriale e aziendale, di compiere ulteriori sperimentazioni per introdurre possibili correttivi o innovazioni alla legge sul lavoro, utilizzando la finestra aperta dall’articolo 8 della manovra del ferragosto scorso. Al di là del recepimento o meno di ulteriori emendamenti, persone, imprese e parti sociali potranno dunque utilizzare l’area della contrattazione aziendale di secondo livello, per individuare nuove e più efficaci soluzioni.

C’è dunque ancora molto da fare – e le opportunità non mancano – per uscire dalle secche in cui ci troviamo. C’è solo da augurarsi che la scadenza per la presentazione all’Europa della Riforma del lavoro non costituisca l’unico motivo per cui è stata realizzata, e che dunque la stessa sollecitudine che ha condotto il Governo ad approvare il Testo con la fiducia – non permettendo così di introdurre i necessari miglioramenti – possa permeare le più che mai fondamentali azioni di sviluppo future. Per questo, proveremo a monitorare quanto verrà fatto, per favorire un dibattito sui temi più importanti e per dare nuovi impulsi, con l’obiettivo di evitare il rischio che – una volta fuori dai riflettori – tutti questi temi si arenino nuovamente nelle sabbie del più totale immobilismo.

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