Dopo le tensioni degli ultimi giorni sulle disparità di trattamento tra pubblico e privato, il premier Monti è dovuto intervenire per fare da paciere tra i due ministri Fornero e Patroni Griffi: il primo auspica una parità tra i due settori, il secondo annuncia che la legge delega del governo sul lavoro dei dipendenti pubblici “non conterrà una richiesta specifica”. Ieri sera è arrivata però la nota congiunta voluta dal presidente del Consiglio, in cui i due ministri del Welfare e della Pubblica Amministrazione fanno sapere  che “i licenziamenti sono una sanzione e possono essere un deterrente. Dunque sono uno strumento, non l’unico”. I due aggiungono anche che “il primo obiettivo della delega che presto sarà discussa dal Consiglio dei ministri è migliorare la Pubblica amministrazione. Il secondo è renderla più efficiente. Il terzo è aumentare la sua produttività. Il quarto è fare in modo che sia più trasparente”. L’importante, concludono, “è che ci sia una Pubblica amministrazione al servizio dei cittadini e di un sistema economico inclusivo”. Secondo Pietro Antonio Varesi, professore di Diritto del lavoro, raggiunto da IlSussidiario.net, «l’idea che al pubblico impiego si possano applicare regole assolutamente identiche a quelle del settore privato si può definire quanto mai “fantasiosa”. Pur avendo superato la netta separazione che esisteva in passato, permangono comunque delle notevoli differenze nello svolgimento dell’attività che i dipendenti sono chiamati a realizzare. Non si può far finta che si tratti della stessa cosa, quindi una cosa è voler avvicinare il più possibile le discipline, un’altra è pensare che le regole possano essere le stesse».



Varesi chiarisce il concetto spiegando, attraverso un esempio, che «un lavoratore privato può svolgere qualunque attività in aggiunta al rapporto di lavoro subordinato che ha con il suo datore di lavoro. Il lavoratore pubblico invece non può e, se vuole svolgere altre attività, deve prima richiedere specifiche autorizzazioni, rispettare determinati limiti e così via. Questo perché si vuole controllare che non vengano svolte attività che siano in concorrenza o che possano distrarre dall’attività che il dipendente svolge nella Pubblica Amministrazione». Per quanto riguarda invece il tema dei licenziamenti, spiega ancora Varesi, «è evidente che nel pubblico impiego le regole di assunzione e di licenziamento devono essere assoggettate a una particolare cautela, altrimenti otterremmo come conseguenza lo scatenarsi dei fenomeni già ampiamente presenti dell’assunzione clientelare e del licenziamento discrezionale». La Pubblica amministrazione ha invece bisogno di continuità, spiega Varesi, «quindi è necessario decidere e applicare regole precise sia nell’assunzione che nel licenziamento, affinché si possa garantire da un lato l’assenza di un’eccessiva discrezionalità, dall’altro la stessa sanzione per il lavoratore “fannullone”, sia nel pubblico come nel privato».



La Cgia di Mestre fa intanto sapere che tra il 2001 e il 2009 il numero degli impiegati statali è diminuito di quasi 111mila unità (dai 3.637.503 del 2001 ai 3.526.586 nel 2009). Nonostante questo, emerge anche che la spesa totale degli stipendi è invece aumentata di 39,4 miliardi di euro (+29,9%), attestandosi nel 2009 verso i 171 miliardi di euro. Secondo il presidente Bortolussi, questi numeri mostrano chiaramente quanto “questi aumenti non siano finiti in tasca a bidelli o infermieri, ma abbiano avvantaggiato con ogni probabilità i livelli dirigenziali medio alti del nostro pubblico impiego”. Anche il professor Varesi commenta i dati, ammettendo di esser rimasto molto sorpreso: «Tenendo conto del fatto che gli stipendi dei pubblici dipendenti in questi anni sono rimasti sostanzialmente fermi, come è possibile aver avuto una spesa così elevata? E’ vero che il lasso di tempo preso in considerazione dalla Cgia di Mestre è di quasi 10 anni, ma resta il fatto che da almeno 5 anni gli stipendi degli statali non aumentano di un solo centesimo. Rimango quindi molto sorpreso di fronte a questi numeri, soprattutto perché ritengo che non corrispondano alla realtà».



 

(Claudio Perlini)