Con il governo Berlusconi, le riunioni del Consiglio dei ministri duravano otto minuti – almeno fin quando la presa del Premier è rimasta salda, e lui se ne faceva un vanto. Mario Monti, capo del governo tecnico, non lesina invece tempo al “momento collegiale” del suo esecutivo, e sono state numerose, finora, le riunioni di consiglio protrattesi per oltre sei, sette ore. Risulta quindi del tutto incomprensibile – se non in una chiave di caratterialità che a certi livelli non si può ammettere – il riproporsi ormai non episodico di attriti espliciti (e mediaticamente rilevabili) tra Elsa Fornero, ministro del Welfare, e i suoi colleghi di governo.



L’ultimo episodio ha riguardato il dissenso esplicito con il responsabile della Funzione pubblica, Patroni Griffi, sulla licenziabilità dei dipendenti statali. Un tabù da superare, secondo la Fornero, per raggiungere una simmetria di trattamento che non sarebbe più eludibile di fronte alle necessità congiunturali di ottimizzare spesa pubblica ed efficienza della pubblica amministrazione; un diritto sacrosanto che la legge tutela, secondo Patroni Griffi. Il botta-e-risposta ha fatto notizia, non ha reso un buon servizio all’immagine di compattezza e coerenza del governo, e la frittata in questo senso è ormai fatta e irrecuperabile. Resta il dibattito, ormai aperto, sul merito della questione.



E qui bisogna dare ragione alla Fornero. “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge”, recita l’articolo 3 della Costituzione. E non si capisce davvero perché gli statali possano rappresentare un “sottoinsieme” di cittadini “più uguali” degli altri, ovvero protetti da una normativa più garantista in termini di “dignità sociale”. Non introdurre anche a carico dei dipendenti statali lo stesso criterio – invero piuttosto blando – di “licenziabilità” introdotto per i lavoratori dipendenti del settore privato è francamente una scelta inspiegabile, oltre che anticostituzionale.



Inoltre non c’è dubbio che al redde rationem della famosa “spending review” in corso nella Pubblica amministrazione centrale dello Stato (e a quanto pare anche in quelle periferiche) si constaterà con sgomento – e ampio corredo di scontri sindacali – che in molti casi il pubblico impiego rigurgita di personale sottoutilizzato, che si potrebbe agevolmente tagliare o utilizzare diversamente. Se questo non è accaduto e non accade è solo a causa di un’incredibile ingessatura sindacale che storicamente ha sempre tutelato i pigri, gli inetti e i fannulloni, ma che oggi rappresenta un lusso di cui lo Stato non riesce più a sostenere i costi.

Quindi, com’è accaduto in Grecia, anche in Italia verrà presto al pettine il nodo dell’inefficienza del pubblico impiego. E arriveranno i licenziamenti, per lo meno quelli collettivi. Introdurre anche a valere sul pubblico impiego quel minimo fattore di meritocrazia rappresentato dalla riscrittura “indebolita” dell’articolo 18 significherebbe compiere un passo in avanti verso l’efficienza dei servizi e la riduzione dei costi. Speriamo.