«Oltre alla diversità di visione tra i due ministri, metterei in luce lo scarso coordinamento che esiste  tra i ministeri del Lavoro, da una parte, e della Pubblica Amministrazione e Innovazione dall’altra. Sono strutture che si parlano poco da sempre: al Lavoro ci si occupa di ammortizzatori sociali, di pensioni, di mercato del lavoro, ecc.; il lavoro  pubblico è lasciato a Palazzo Vidoni». Gianfranco Rebora, Professore di Organizzazione e gestione delle risorse umane presso l’Università Cattaneo – LIUC di Castellanza (VA), commenta così il recente braccio di ferro tra Elsa Fornero e Filippo Patroni Griffi sulla disparità di trattamento tra dipendenti pubblici e privati, spiegando che in questo modo «la riforma del mercato del lavoro è stata concepita e  avviata prescindendo dal considerare la componente pubblica  del mondo del lavoro e il fatto che le riforme degli anni ’90 hanno da tempo riportato  il lavoro pubblico alla disciplina del  diritto privato del lavoro, tanto che l’articolo 51, comma 2, del decreto legislativo 165/2001 (Testo unico del pubblico impiego) dice: “La legge 20 maggio 1970, n. 300, e successive modificazioni e integrazioni, si applica alle pubbliche amministrazioni a prescindere dal numero dei dipendenti”.  Quindi le eventuali modifiche  all’articolo 18 si applicherebbero senz’altro al lavoro pubblico a meno di contraria disposizione».



Professore, cosa pensa quindi di questo iniziale mancato accordo?

C’è stato imbarazzo quando si è capito che era mancata una condivisione su questo punto. Da lì le reazioni e controreazioni che hanno portato all’accordo di maggio (che coinvolge i Ministri della Pubblica amministrazione e dell’Economia, i sindacati, le associazioni di enti locali e regioni; mentre il Ministro del Lavoro non risulta tra i firmatari). Ne consegue un messaggio indiretto al Paese secondo cui hanno senso due distinti sistemi di regole, tornando indietro rispetto a riforme che sono già legge da anni. Non darei però più di tanto la colpa ai due Ministri, ma a un assetto strutturale delle nostre amministrazioni centrali che non è adeguato a riforme incisive e politiche “trasversali” come quelle che ormai servono in tutti gli ambiti della nostra società.



Qual è il problema di fondo a suo giudizio?

Il problema di fondo è che questo governo non ha (forse non può avere) nel suo programma un intervento serio di cambiamento delle pubbliche amministrazioni. Per farlo dovrebbe mettere in discussione radicalmente lo stesso assetto dei ministeri. Il Paese ha bisogno di amministrazioni diverse, che costino meno e sappiano elaborare e condurre politiche pubbliche degne di questo nome.  Fin dall’inizio il problema è stato sottovalutato, o volutamente non considerato come priorità, stanti anche i limiti di orizzonte temporale. Poi è stato affrontato in termini di spending review, un aspetto necessario ma che non comprende quella riprogettazione delle amministrazioni che prima o poi si dovrà comunque affrontare. Del resto, anche la nomina di Patroni Griffi alla Pubblica Amministrazione e Innovazione ha avuto un preciso significato di continuità (è un insigne giurista, Consigliere di Stato, sempre presente negli  ultimi 20 anni in ruoli chiave delle amministrazioni centrali).  E’ competente, ma conservatore, non è certo a lui che si può chiedere di portare avanti innovazioni radicali.



Se esiste in teoria la possibilità di licenziare nel pubblico impiego per motivi economici, nella sostanza i dipendenti pubblici hanno sempre avuto garanzie sulla stabilità del posto di lavoro. I licenziamenti disciplinari sono previsti, ma i casi di effettiva risoluzione del contratto di lavoro per queste ragioni sono scarsissimi. Cosa ne pensa?

Non solo in Italia la tutela della stabilità del posto di lavoro per i dipendenti pubblici dipende, più che dalle leggi e regole dell’impiego, da un contesto delle relazioni sociali, politiche e istituzionali che si è stratificato nel tempo e che alla fine condiziona allo stesso modo anche governi che hanno segno politico molto diverso. In sostanza, emerge un comportamento pragmatico e adattivo, orientato al breve periodo, che accomuna i diversi  paesi. Le forme di flessibilità in uscita esistono da tempo in quasi tutti i paesi, compresa l’Italia; i diversi governi sembrano preferire altre forme di intervento anche di fronte all’aggravarsi della crisi, che poi sono le stesse usate in Italia: blocco dei salari e del turnover soprattutto; in casi estremi sacrificio del personale con le forme più deboli di impiego, come interinale e contratti a termine.  Il licenziamento per motivi disciplinari è ostacolato spesso dal timore di contenzioso; è il nostro sistema giuridico nel suo insieme, con tutte  le sue complessità e farraginosità, a ostacolare questo, non tanto la mancanza di specifiche norme. Il modo in cui è costruito il nuovo articolo 18 introduce nuove incertezze che nel pubblico peserebbero molto; non per caso, questa è una delle motivazioni principali addotta per giustificare una disciplina ad hoc per il pubblico. Al di là delle norme, si deve pensare di più a come viene esercitato il ruolo del datore di lavoro pubblico, oggi troppo spezzettato tra tanti soggetti che non si coordinano. Ma questo rimanda a quella radicale riforma, strutturale e organizzativa, di cui sostengo la necessità.

Secondo la Cgia di Mestre tra il 2001 e il 2009 il numero degli impiegati statali è diminuito di quasi 111 mila unità, ma nonostante questo la spesa totale degli stipendi è aumentata di 39,4 miliardi. Qual è il suo giudizio a riguardo?

Nel periodo indicato ci sono stati rinnovi contrattuali abbastanza generosi e la nuova classificazione del personale ha facilitato le progressioni di carriera. Il pubblico impiego ha perso terreno sul piano economico negli anni  ’90; poi ha recuperato ampiamente sotto la spinta dei sindacati, ma anche di regioni ed enti locali. Spesso poi la contrattazione decentrata ha violato le regole stabilite dai contratti nazionali, con controlli e sanzioni che sono giunti in ritardo (ma in qualche caso con effetti anche traumatici).  

Secondo il segretario generale della Cgia di Mestre, Giuseppe Bortolussi, «è evidente che questi aumenti non sono finiti in tasca agli infermieri, ai bidelli o alle maestre elementari. E’ molto probabile che ad avvantaggiarsene economicamente siano stati i livelli dirigenziali medio alti del nostro pubblico impiego». E’ vero?

Non è esatto dire che gli aumenti hanno favorito soprattutto i dirigenti; si sono spalmati in realtà su tutto il personale, certo in proporzione ai trattamenti di base. Si deve però anche dire che i dati della Cgia di Mestre sono ormai vecchi. La più recente relazione della Corte dei Conti (4 giugno 2012)  attesta che: “Si rileva nel 2010 per l’Italia una sostanziale stabilità della spesa per retribuzioni lorde a fronte di significativi incrementi nel Regno Unito, in Francia e in Germania. Il rapporto tra la spesa per redditi e il Pil (11,1% nel 2011) appare superiore esclusivamente al parametro relativo alla Germania. Nella media europea si colloca il rapporto tra spesa per redditi e spesa corrente delle pubbliche amministrazioni. Il raffronto tra il numero dei dipendenti pubblici e il totale degli occupati, in forte discesa per l’Italia nell’ultimo decennio (dal 16,4% al 14,4%), evidenzia un peso della burocrazia sul mercato del lavoro pari a circa la metà della Francia e di gran lunga inferiore anche al Regno Unito”.

Sembra che il numero dei dipendenti italiani sia molto simile a quello di Francia e Germania, ma anche che in questi Paesi la spesa complessiva per le retribuzioni sia molto più bassa. Come se lo spiega?

Non è tanto vero.  I nostri numeri del personale sono allineati alla Germania e molto inferiori alla Francia. Se si ragiona solo sui numeri si rischia di legittimare la situazione esistente. La preoccupazione fondamentale è la qualità e l’efficacia dell’amministrazione. Si dovrebbe poi considerare tutte quelle costellazioni di società e organismi vari, che sono formalmente esterni al perimetro della pubblica amministrazione (e dell’impiego pubblico), ma fanno capo ai governi centrale e locali e incidono in maniera sostanziale sulla spesa, soprattutto in periferia.

Quale modello straniero consiglierebbe all’Italia per migliorare la situazione attuale? 

Ragionare per modelli è sempre pericoloso perché si rischia di “scimmiottare” ciò che visto da lontano sembra funzionare. Bisogna però conoscere ciò che avviene altrove. Nel campo del management pubblico, ripensamenti e discussioni critiche sono in atto in  tutto il mondo, come si è visto nella recente  XVI Annual Conference della  International Research Society for Public Management (IRSPM), che si è  tenuta a Roma in aprile, significativamente intitolata Contradictions in Public Management. Managing in volatile times. La sessione finale è stata ospitata dalla Presidenza del Consiglio, nel centro di Roma  un sabato mattina, ed erano presenti poche decine di persone, tra loro pochissimi dirigenti pubblici. Le nostre istituzioni e amministrazioni devono certamente recuperare il ritardo nell’assimilare una cultura dei risultati; ma la stessa entità dei miglioramenti richiesti in una fase in cui si devono superare i “tagli lineari” per entrare nell’ordine di idee della “revisione strutturale della spesa” (spending review) chiama in causa una capacità di discernimento intelligente e di riconoscimento selettivo che manca nelle attuali strutture non solo per limiti culturali ma per il modo stesso in cui sono configurati i centri decisionali. 

Si spieghi meglio.

Detto in termini più crudi: le nostre riforme falliscono soprattutto per i contrasti tra i diversi centri decisionali (tra i diversi ministeri; tra il governo centrale, le regioni e gli enti locali; tra le amministrazioni e gli organi di controllo, ecc.); ma non facciamone un problema di Ministri, è una questione strutturale, di disegno ormai palesemente inadeguato del sistema pubblico.

Quindi di cosa c’è bisogno?

In uno scenario di cambiamento, forzato e imposto dalla gravità della crisi fiscale dello Stato, serve  un progetto complessivo di transizione, impostato con forte senso della realtà e sulla base di una adeguata conoscenza di assetti, funzionamento, problemi e risultati delle attuali strutture, evitando approcci solo reattivi, pregiudiziali o basati su generalizzazioni improprie. E’ necessario un progetto complessivo di transizione, di drastica riorganizzazione a livello sia delle strutture centrali che delle autonomie, nella prospettiva temporale di almeno una legislatura.

 

(Claudio Perlini)