La crisi – originata sia dalla spersonalizzazione dell’economia che dalla conseguente molla speculativa di cui abbiamo parlato la scorsa settimana – ha ulteriormente drammatizzato la scena e contribuisce a un aggiuntivo distacco tra gli apparenti contrapposti interessi del capitale e del lavoro. Questo perché i rapporti non transitano attraverso le esigenze e i bisogni delle persone e delle comunità (aziendali e/o territoriali), non vengono mediati nella ricerca di una possibile utilità sociale e del bene comune (il bene mio e il bene degli altri), ma sono drasticamente determinati solo dalla quantificazione dei risultati a cui è stata, di volta in volta, preassegnata una valenza economica nell’astratta ricerca e misurazione del bene totale (che è un bene statisticamente determinato) che ora può essere individuato con l’austerità, poi con la crescita e così via.
Nel nostro Paese per molti anni è stata veicolata la cultura tornacontista dell’economia, quella cultura che poggiava la sua ragione d’essere non su un libero mercato adeguatamente controllato, ma su un mercato meramente capitalistico e possibilmente in assenza di regole ove la ricerca del massimo tornaconto individuale avrebbe creato valore e posti di lavoro perché miracolosamente e misteriosamente sarebbe intervenuta nel mercato la cosiddetta “mano invisibile” che avrebbe sistemato tutto e soddisfatto tutti.
Gran parte di noi ha vissuto sopra le proprie possibilità. Una buona parte della nostra gente ha abbandonato la vocazione al risparmio e si è indebitata per seguire modelli economici che venivano supportati anche dal consiglio di istituti di credito. Eravamo entrati in crisi prima che scoppiasse l’attuale crisi mondiale, ma eravamo assicurati che la vera crisi non ci avrebbe toccato e abbiamo continuato a operare come se nulla accadesse. Invece di fermarci in tempo, siamo arrivati ai limiti del “baratro” e ora tentiamo di salvare il salvabile con grande sforzo che dovrebbe essere effettuato da tutti, ma alcuni (demoniaci fedeli del miope tornaconto) pensano ancora di potersi salvare da soli. La cultura materialista del capitalismo finanziario ha ancora molti adepti.
L’economia del Paese forse è stata acciuffata per i capelli, ma lo scenario in cui ci stiamo muovendo è desolante: imprese industriali e commerciali che chiudono, disoccupazione effettiva e cassa di integrazione crescenti, istituzioni creditizie che non supportano più le produzioni, settori economici che vedono diminuire in maniera consistente la domanda, ecc. In una parola: recessione. La recessione è caratterizzata dalla diminuzione della domanda nei mercati, dalla conseguente diminuzione delle produzioni e dai conseguenti licenziamenti e/o dalle riduzioni delle retribuzioni che, a loro volta, comportano un’ulteriore diminuzione della domanda.
Se poi a tutto questo si aggiunge una pressione fiscale più elevata e se questa fiscalità è pagata prevalentemente dai redditi fissi, allora la situazione si incancrenisce ed è destinata ad avvolgersi su se stessa. Insomma, si crea un circuito bastardo destinato a rigenerarsi continuamente, che è possibile scombinare solo se si ha un sussulto di scommessa sociale di tipo keynesiano che deve tentare con ogni mezzo di tutelare e creare lavoro.
Solo il mantenimento e la contemporanea creazione di nuovi posti di lavoro potrà permettere una ripresa anche se lenta. Ma per fare questo è urgente e necessario intervenire abbandonando gli schemi miopi del tornaconto, le imprese debbono essere aiutate fiscalmente non solo a effettuare nuovi investimenti, ma debbono anche essere supportate nel mantenimento dei livelli occupazionali nel caso in cui gli investimenti debbano essere postergati al fine di mantenere o di accrescere gli acquisiti livelli occupazionali. Occorre liberare in misura consistente dal peso fiscale “i soliti noti” e, senza tema, urge far pagare le tasse ai grandi patrimoni infruttiferi e a quelli meramente destinati alla rendita (ovviamente non debbono essere colpiti i patrimoni aziendali collegati con le produzioni).
Occorrono iniziative di politica economica che fungano da viatico per le produzioni agrarie favorendo in maniera particolare l’ingresso nel settore di giovani (alla terra e alla sua ricchezza dobbiamo veramente tornare, ovviamente con modelli nuovi di imprenditorialità). Occorrono interventi a sostegno del turismo, anche con la creazione temporanea di posti di lavoro nelle varie strutture del nostro Paese (musei, siti archeologici, chiese, ecc.), iniziando, anche se in via provvisoria, con la presenza continua e sistematica nel trasporto pubblico, ove spesso, e non solo per i turisti, il pagamento del biglietto è un optional (forse, sotto questa luce, dovevamo pensarci un po’ di più prima di rinunciare a ospitare le Olimpiadi).
Insomma, occorre inventare e inventarsi il lavoro, occorre rammentarsi di essere italiani e, quindi, ingegnosi, ma soprattutto se lo deve rammentare il ministro del Lavoro che si ingegni e non ci rattristi con apocalittiche promesse di licenziamenti e, soprattutto, non ci tedi con inutili discussioni sull’articolo 18: decisioni più urgenti debbono essere prese per non sentirsi dire (ma non mi sembra del tutto vero) dal nuovo Presidente di Confindustria della pochezza della riforma da lei proposta.
(2 – fine)