Senza colpo ferire, in tempi record – a soli tre giorni dal primo turno delle legislative e a poco più di un mese dalla sua elezione -, Hollande mantiene la promessa. E, praticamente dalla sera alla mattina, riposiziona l’età pensionabile minima sui 60 anni. Umiliando il suo predecessore, Nicolas Sarkozy, che aveva fatto dell’innalzamento dell’età pensionabile a 62 anni un suo cavallo di battaglia. Per la verità, la misura non riguarderà tutti i lavoratori francesi, ma solo una platea di circa 110 mila persone. Ovvero, coloro che hanno almeno 41 anni di contributi e hanno iniziato a lavorare intorno ai 18-19 anni. Costo dell’operazione: 1,1 miliardi di euro, finanziati con un aumento dei contributi previdenziali dello 0,2%, metà dei quali a carico dei lavoratori, metà a carico dei datori di lavoro. I beneficiati ci ricordano tanto i nostri “precoci”, sui quali, prima di decidere di salvaguardarli, il dibattito è infuriato per mesi e mesi, con il governo arroccato sulle proprie posizioni. Domenico Proietti, segretario confederale della Uil con delega alle Politiche fiscali e alle Politiche previdenziali, sottolinea per ilSussidiario.net le differenze rispetto alla situazione italiana. «Va detto, tanto per cominciare, che si tratta di una scelta intelligente. Introduce, infatti, il criterio della flessibilità, decisivo per il corretto funzionamento dei sistemi previdenziali. Cosa che, invece, non è stata fatta dal governo italiano, con il provvedimento dello scorso dicembre». Sul quale, il sindacato è sempre stato parecchio perplesso: «La riforma delle pensioni, oltre alle difficoltà che tutti abbiamo di fronte agli occhi, quali gli esodati, determinerà non poche criticità anche sul fronte della fluidità del mercato del lavoro. Come, infatti, dimostrano svariati studi, obbligare pressoché tutte le categorie lavorative a non andare in pensione prima di una certa età, impedirà quel turn-over naturale che avrebbe consentito a molti giovani di accedere al mercato del lavoro».
La speranza, ormai, risiede nel dopo Monti. «Quando il governo avrà assunto nuovamente connotati politici, è auspicabile che possa pensare seriamente di introdurre meccanismi di flessibilità in uscita che lascino al lavoratore la possibilità di andare in pensione entro un range stabilito, con premi o penalizzazioni per chi va prima o dopo». Stupisce, inoltre, che mentre in Francia si va in pensione a 62 anni, e si è resa necessaria una correzione al ribasso, da noi si andrà a 66; fino a quando le aspettative di vita non porteranno l’età minima intorno ai 70 anni. Il tutto perché, si dice, ce lo ha chiesto l’Europa. «Abbiamo sempre contestato questa affermazione – replica Proietti -. L’Europa, per anni, ha auspicato quelle riforme che, effettivamente, sono poi state fatte. Da lì in avanti, ha sempre ribadito come il sistema italiano fosse tra i più equilibrati in Europa. Non c’era bisogno di intervento. Quello fatto da Monti ha avuto come unico obiettivo quello di fare cassa. Si sono presi decine di miliardi per coprire altri capitoli di bilancio perché non si sono voluti tagliare i costi improduttivi della Pubblica amministrazione».
Resta il fatto che la natura stessa dell’esecutivo francese ha reso possibile l’operazione. «Oltralpe, una decisione del genere si è potuta assumere in tempi rapidi perché c’è un governo forte. E’ altrettanto evidente che l’assenza di un governo politico ha impedito quell’interlocuzione con le parti sociali che avrebbe portato a risultati positivi, come tutte quelle volte che in passato sono state fatte riforme di questo genere».
(Paolo Nessi)