Nella “Critica del programma di Gotha” Marx non definisce il lavoro come diritto, ma come “primo bisogno”. Perché il diritto deve essere poi riconosciuto, secondo determinate condizioni, mentre il bisogno fa parte del proprio di ogni individuo. Rosmini, invece, nella sua “Filosofia del diritto” va più in là, nel senso che non considera solo l’individuo visto in se stesso, ma anche nelle sue relazioni. Il risultato della teoresi rosminiana è la definizione di persona come “diritto sussistente”. Individuo quindi in senso naturale per Marx, e persona come primo valore non solo naturale per Rosmini, oltre i possibili o meno riconoscimenti. Quindi, direbbe Kant, sempre fine e mai come mezzo.



Pur nelle diverse loro impostazioni, Marx e Rosmini sintetizzano bene il dramma dei nostri anni intorno alla crisi del lavoro, alle ragioni strumentali che hanno segnato questa stessa crisi, alle responsabilità che oggi ci troviamo ad assumere. Anche attraverso alcune scelte impopolari, rispetto alle consuetudini degli ultimi anni, ma necessarie in una società aperta, legata alle domande di giustizia sociale e di reali pari opportunità secondo merito e competenze.



Proprio in ragione di queste considerazioni, trovo importante segnalare la bella intervista ad Alberto Meomartini pubblicata ieri su queste pagine, dedicata alla sempre più discussa “transizione tra scuola e lavoro”. Concordo in pieno, ad esempio, quando l’intervistatore scrive che “scuola e famiglia sono sempre più in difficoltà nel formare uomini autonomi, responsabili, capaci di sentirsi a casa nel mondo che abitano”. Parole ineccepibili. “Il problema dei problemi”, conferma Meomartini. Perché è solo attraverso la valorizzazione del lavoro, come atto di valorizzazione del nostro essere persone, che riusciamo a garantire una “crescita” socio-economica, oltre che personale-spirituale.



Il primo compito, che tutti ci coinvolge, riguarda un’adeguata educazione dei nostri giovani, i quali vanno aiutati a vedere come stanno effettivamente le cose, quali siano cioè le reali condizioni della loro stessa domanda di futuro. La quale deve coniugare attese individuali e cultura di una professione, come già avviene in terra tedesca: in Germania, infatti, l’età di primo inserimento dei giovani è intorno ai 17 anni, mentre da noi supera i 22. Differenze che fanno pensare. I diversi tassi di disoccupazione giovanile dicono appunto questo.

Resta la sempre maggiore richiesta di raccordo tra scelte di formazione e occupabilità dei diversi titolo di studio, nel senso che non basta avere in mano un pezzo di carta, se questo non trova riscontro nel mercato del lavoro. Non solo: come, in più, riqualificare in termini occupazionali coloro che si accorgono di avere un titolo di studio obsoleto? Rimane una questione di fondo, sino a oggi un tabù. Penso al modello svizzero: qui non sono le famiglie e gli studenti che scelgono la scuola superiore, ma sono le scuole stesse, sulla base di test ad hoc, che orientano gli studenti. I tanti iscritti ai Licei, in Italia, e la permanente dispersione a scuola e nella università, dovrebbero suggerire il ripensamento radicale dell’orientamento scolastico. Ma non so se ci sono da noi le condizioni per proporre questo ripensamento.

Meomartini cita poi un’opportunità che poche scuole, sino a oggi, hanno valorizzato. Parlo dei Comitati tecnico-scientifici (Cts). Che coinvolgono tutte le scuole superiori, non solo gli istituti tecnici e professionali. Ma il mondo della scuola guarda ancora il lavoro con gli occhiali in molti casi ideologici: basta leggere certe prese di posizione. Mentre, lo sappiamo bene, le esperienze di alternanza, cioè la scuola in impresa, e gli stages sono grandi opportunità, che vanno allargate, non limitate a poche classi, sulla base della sola buona volontà di pochi docenti.

In altri termini, le imprese e gli studi professionali sono comunque momenti formativi per i nostri giovani, fanno cioè intuire il valore sociale, i nessi col territorio e le comunità locali. E le scuole stesse dovrebbero tutte aprirsi a forme di rendicontazione attraverso un “bilancio sociale”; dall’altra parte, le stesse imprese vanno aiutate a comprendere e condividere, con la piena valorizzazione dei Cts, alcuni momenti formativi e informativi sulle implicazioni del raccordo con mondo della scuola.

Le imprese si stanno accorgendo, grazie anche alla crisi, che conviene investire nella formazione, direttamente o attraverso le associazioni di categoria.

Vorrei qui citare il caso di un’azienda padovana, la Carel, presieduta da Luigi Rossi Luciani. Si tratta di Join The Future 2012, un programma di sviluppo e crescita interdisciplinare e interculturale per giovani neolaureati. Un percorso finalizzato allo sviluppo delle competenze tecniche trasversali, attraverso un iter di formazione e training on the job. Per acquisire capacità di teamworking e gestione del cambiamento, essenziali per operare in realtà altamente competitive.
La finalità è evidente: aiutare i giovani a scoprire le loro migliori attitudini professionali.
La proposta della Carel è rivolta ai giovani neolaureati in Ingegneria, Economia, Discipline Scientifiche, con ottime votazioni e di età non superiore ai 27 anni. Un esempio concreto di responsabilità sociale dell’impresa.

Ma le imprese non possono vincere da sole il rischio economicistico, di un profitto fine a se stesso e di un lavoro ridotto a mero sfruttamento. Qui non servono le vecchie polemiche ideologiche, figlie di una logica dello scontro. Serve alla pari, è sempre bene ripeterlo, un ruolo attivo delle imprese e del mondo della scuola e dell’università, ma serve, prima ancora, una nuova politica delle organizzazioni sindacali. Più disponibili a ragionare in funzione di una moderna economia sociale di mercato, oltre i paradigmi marxiani.

Pensiamo solo a questo: i problemi dell’occupazione non sono solo l’effetto della crisi finanziaria. Secondo un autorevole analista del mondo del lavoro, Thomas Kochan, del MIT, il nesso tra salari e produttività non ha lo stesso valore del recente passato. Il perdurare, anzi, di questa criticità rischia di compromettere quel patto sociale che è alla base della nostra democrazia economica. Kochan indica alcune cause: uno sviluppo economico legato al controllo finanziario dell’economia, in un contesto disordinato di delocalizzazione produttiva, connesso al venir meno del valore dell’azione politica dei governi, all’evidente crisi dei sistemi di istruzione, sempre più lontani dalla dinamicità formativa richiesta; crisi aggravata dal persistente scoglio corporativo del mondo sindacale, poco sensibile a investire, normativamente, nei processi di innovazione. La stessa politica di rigore attuata in Europa (fiscal compact) va perciò ripensata in un nuovo patto per il lavoro (jobs compact), per favorire la crescita attraverso nuove pari opportunità sociali.

Come preparare, dunque, i nostri giovani alle professioni del futuro? Spingendoli, in prima istanza, a scegliere percorsi spendibili, e, inoltre, offrendo una “seconda chance” a coloro che o hanno titoli di studio senza opportunità occupazionali o riqualificando coloro che sono stati costretti a scegliere professioni lontane dai propri percorsi di studio. Resta una terza opzione: sviluppare profili qualitativi sui vecchi “mestieri”. Pensiamo qui alla green economy.

Serve dunque un nuovo Patto del lavoro. Che coinvolga tutti gli attori sociali. Ma senza il ruolo attivo dei decisori politici – che non si limitino a guardare alle prossime elezioni, ma pensino invece alle prossime generazioni, come voleva De Gasperi – è difficile solo immaginare quale sarà il nostro futuro.