Già in mattinata, una ferale notizia aveva scosso i banchi dell’Aula del Parlamento. Tutti i partiti che sostengono la maggioranza, i sindacati e Confindustria erano riusciti ad accordarsi, in via del tutto inedita, per modificare il testo della riforma del mercato del lavoro in dieci punti. Ma la Fornero aveva bocciato l’intesa, motivando il diniego con l’assenza di copertura. Tuttavia, poche ore dopo, la notizia aveva assunto contorni più definiti e meno avversi: «Tra i dieci punti, contenuti in un unico emendamento al decreto sviluppo, solo per quello relativo al rinvio dell’Aspi sarebbe stato necessario trovare adeguata copertura. Per il resto, si sarebbe trattato di perfezionare l’intesa con il governo», spiega a ilSussidiario.net l’onorevole del Pdl Nino Foti, esponente della commissione Lavoro. Nel pomeriggio, però, è giunta una seconda, inspiegabile e sinistra notizia: i presidenti delle commissioni Attività produttive e Finanze hanno dichiarato inammissibili 887 dei 1.901 emendamenti presentati al decreto. Tra questi, anche quello proveniente dal patto tra i partiti. «Si è trattato di un fatto anomalo – continua Foti -, un episodio inspiegabile; oserei dire da film horror. La misure che abbiamo concordato, infatti, corrispondono a un impegno preciso che si era assunto il premier Monti nei confronti del Parlamento. Voglio ricordare che la riforma del mercato del lavoro è stata votata in fretta e furia, in seguito a una sua richiesta esplicita, senza che, di conseguenza, avessimo potuto disporre dei tempi adeguati per una seria discussione o per studiarne le modifiche più opportune». In ogni caso, non era stata votata a occhi chiusi: «Abbiamo deciso di compiere un gesto di estrema responsabilità, per consentire al presidente del Consiglio di recarsi al vertice europeo del 28 giugno con in tasca il provvedimento portato a termine; affinché potesse, così, dimostrate ai partner europei l’affidabilità dell’Italia e, di conseguenza, avanzare le proprie istanze».



Tutto questo, avrebbe dovuto avere un costo: «In cambio di un’approvazione celere, ci era stato garantito, in sede di votazione, che sarebbe stato possibile modificare la riforma a posteriori». In ogni caso, gli emendamenti in questione sono stati dichiarati inammissibili. Cosa che l’onorevole contesta nel merito. «E’ stato affermato che, dal momento che entrerebbero a far parte del decreto sviluppo, non sono pertinenti alla materia. Tale giustificazione, tuttavia, non sta in piedi; molti di quegli emendamenti, infatti, vi attengono eccome, riguardando la flessibilità in entrata e la forma dei rapporti di lavoro all’interno delle aziende. Si tratta di elementi fondamentali per il rilancio dell’economia». Accampando, tuttavia, tali motivazioni, i presidenti delle commissioni Finanze e Attività produttive hanno deciso per l’inammissibilità. «Hanno il potere di decretarla e lo hanno fatto. Cosa che, personalmente, mi ha decisamente rammaricato. Anzitutto, perché hanno deciso di stoppare dei provvedimenti finalizzati al bene del Paese; e, oltretutto, perché il presidente della commissione Finanze, Gianfranco Conte, appartiene al Pdl». Quindi?



«Mi auguro che si sia trattato di un banale errore tecnico. Di una dimenticanza, diciamo. E che dietro non ci siano problemi legati ai rapporti personali. Purtroppo, infatti, accade spesso che in politica tale piano si confonda con quello dei propri doveri». Per il momento, tuttavia, non è il caso di disperare. «Io, l’onorevole Cesare Damiano e i capigruppo in commissione abbiamo fatto ricorso, attraverso una specifica formula parlamentare, per la revoca dell’inammissibilità». Non resta che attendere e vedere cosa succede. «Gli emendamenti bocciati sono 887. Il presidente – è sempre lui a decretare l’ammissibilità del ricorso – può decidere di seguire l’ordine cronologico o di dare la priorità all’emendamento concordato con gli altri partiti». Potrebbero essere nuovamente dichiarati inammissibili. «In tal caso, di determinerebbe un serio problema politico. Nascerebbe il sospetto che il governo non è intenzionato a mantenere le promesse». 



 

(Paolo Nessi)