Toc toc, c’e un economista in giro? Un bravo economista, ragioniere, geometra, o chessò, un esperto di scacchi, bridge, matematica? Sudoku? Nessuno? Nessuno bravo con i numeri o la logica e che sappia anche parlar chiaro? Cioè che sia in grado di spiegarmi il meccanismo secondo il quale se si fanno meno feste il Pil prende il volo?
Il povero Merisio lo ha già detto una volta e lo ridice. A capire che se la gente lavora un poco di più l’economia va meglio, ci arriva anche. A capire che se sale la produttività il Paese ne guadagna, e fa un salto in avanti in quelle classifiche nelle quali è chissà come sempre dietro anche al Botswana, ce la fa. Non ci vogliono né geni, né ingegneri nucleari. Basta avere qualche neurone collegato.
Quello che al Merisio sfugge è il senso di tutto. Perché i casi sono due: o stiamo raschiando veramente il fondo del barile, grattando pure la ruggine, e allora se anche recuperiamo una molecola di metallo la trasformiamo in oro; oppure c’è veramente qualcosa di perverso e di diabolico nei meccanismi che compongono il Pil e che servono a saziare l’appetito dei mercati sempre pronti a prendersi gioco dei criteri messi nero su bianco nell’ormai triste e funerea cittadina olandese di Maastricht.
Dunque il ragionamento è questo. Accorpiamo le festività, cancelliamo qualche giorno festivo, qualche santo e qualche sagra, e qualcosa potrà andare meglio. Ora, se il metodo Montessori ha avuto effetto sul cervello del Merisio, la proposta pur se sensata ha di certo molte pecche. A occhio e croce l’Italia oggi, come la Gallia, “è divisa in tre”. Ci sono cioè tre tipi di italiani. Quelli che lavorano meno di sei ore al giorno. Quelli che di ore ne lavorano più di dieci. E quelli che non lavorano affatto.
Ora, siccome gli ultimi stanno aumentando a vista d’occhio causa crisi, mi si vuol far credere che bastonando gli altri, che poi sarebbero gli over-10, facendogli perdere un paio di festività, dalla crisi si possa uscire (gli under-6, infatti, sono a loro volta di due tipi: quelli che se potessero lavorerebbero comunque di più, ma non riescono per crisi; e quelli che troverebbero comunque il modo di compensare, va da sé, imboscandosi ancora di più).
C’è un’altra evidenza. Quella che mi dice che oggi il problema delle aziende non è tanto quello di produrre, ma di vendere qualcosa a qualcuno. Perché puoi anche sfornare più merce. Ma che cosa? E per chi, se anche in spiaggia la gente risponde ormai ai vu cumprà che con l’Imu non c’è più un euro nemmeno per il pareo taroccato?
Si potrebbe allora pensare che togliere i festivi faccia guadagnare qualche pezzo da 50 alle aziende, risollevandone un filo i conti. Ma allora che lo si dica chiaramente, che come lo “zingaro” rispose ai dirigenti della nota e titolata squadra in clima di austerità, potremmo anche noi replicare: avete bisogno di un assegno?
Torniamo seri (anche perché gli assegni, checché ne dica la solerte Finanza, non li prende comunque più nessuno…). Qui il punto vero, se al Merisio funziona ancora la testolina, è che siamo veramente alla frutta. Di mezzi e di idee. La realtà è che il Pil è un grande trucco, e che i trucchi si sistemano solo coi giochi di prestigio. Funziona così da un po’, che sia finanza o contabilità, sempre creativa è.
Il problema semmai è quanto spendiamo per pagare le menti che ci lavorano su. Perché con la favola dei mercati che vanno saziati, prima o poi spunterà anche un economista eschimese con una sua idea molto precisa su come soddisfare il nostro gradito ospite speculatore, nella lunga notte della crisi, nel nostro freddo igloo delle idee. E allora ci sarà poco da fare festa.