Sarà perché mi sto trasferendo per un anno negli Usa per un sabbatico, ma l’Italia assomiglia sempre più all’Isola di Pasqua. L’analogia appare ardita, ma mi viene suggerita anche dagli alti lai che hanno seguito la denuncia della concertazione, come uno dei mali della storia del Paese, da parte del Presidente del Consiglio Mario Monti. Non sono mai stato tenero con questo Governo e con il Presidente del Consiglio, al quale imputo la mancanza di un disegno di rinnovamento istituzionale e sociale del Paese, ma questa volta ha solo dato voce a uno degli elementi scellerati della nostra storia.



E sbaglia, consapevolmente e in modo irresponsabile, chi, come Susanna Camusso, agita l’accordo del ’93 come controprova del ruolo positivo della concertazione. In primo luogo, dimentica artatamente che fu un accordo, di fatto, imposto alle parti dall’allora Presidente del Consiglio Carlo Azeglio Ciampi, che si sedette al tavolo minacciando di non alzarsi fino alla firma, non potendo politicamente intervenire per legge sul tema del lavoro. In secondo luogo, fa finta di ignorare che la concertazione di cui parla Monti è quella per la quale l’incapacità delle parti sociali di risolvere il conflitto si traduceva magicamente nella richiesta di risorse pubbliche a profusione, con la gravissima corresponsabilità di sindacati e imprese che oggi giocano a sfilarsi.



Ecco perché l’Isola di Pasqua: un’Italia costellata di imponenti totem a cui si sacrifica ogni giorno la possibilità reale di una ripresa, con il rischio che la guerra montiana diventi un’ecatombe, economica, ma soprattutto sociale, come ricordava recentemente Maurizio Ferrera dalle colonne de Il Corriere della Sera.

Confesso che ogni giorno che passa, sorge in me sempre più rabbia per una follia collettiva che non riesco a comprendere. Basterebbe che invece di concentrarsi su patchwork arruffati sulle pensioni, il lavoro, la spending review che fanno assomigliare il Governo a un team di auditor invero poco professionali, si prendesse in mano il lavoro di Elinor Ostrom, premio Nobel poco considerato nel nostro Paese (tanto popolato da “rigoristi” di ritorno come i Giavazzi e Boeri di turno), ma in grado di fornire uno strumento di analisi potente di come si cambiano le istituzioni.



Un Paese non si cambia con l’assetto normativo ed è per questo che in più di un’occasione ho ricordato che questa riformetta del lavoro non avrà alcun impatto reale. Il cambiamento delle istituzioni richiede di considerare i comportamenti effettivi degli attori e di intervenire per modificarli.

Poiché, però, è assai facile distruggere e criticare, mi sposto questa volta in un terreno che non mi appartiene e provo a proporre alcune, semplici, idee:

1- Rifondare il patto sociale con il ribilanciamento dell’imposizione fiscale tra patrimonio e reddito, conseguendo un’importante riduzione delle imposte sulla generazione di reddito di impresa e da lavoro.

2- Utilizzare le risorse che ne deriverebbero (con un vincolo assoluto di spesa) per: defiscalizzare in misura rilevante l’investimento in ricerca e sviluppo, l’investimento in nuove imprese e il lavoro giovanile; favorire il passaggio dalla conservazione del lavoro in settori maturi alla creazione del lavoro in nuovi settori, ad esempio affrontando esplicitamente la crisi dell’auto che è crisi da sovrapproduzione e richiederà presto o tardi una cura draconiana; intervenire per sostenere la riqualificazione delle persone nelle fasi di passaggio nella vita professionale con una profonda revisione delle modalità con le quali si investono le risorse dei fondi interprofessionali e con un piano nazionale che investa pesantemente le università costringendole ad accettare anche il ruolo di istituzioni di formazione permanente e continua; potenziare i meccanismi di sostegno alla creazione di nuova impresa con defiscalizzazione delle risorse investite in capitale di funzionamento anche da investitori terzi (venture capital).

Non apprezzo le liste dei sogni e quindi mi limito a queste prime indicazioni, ma sottolineo come l’elemento centrale debba essere una nuova pattuizione sociale. Già molti anni fa Ugo Ascoli evidenziava come stessero saltando molti dei patti su cui si era fondata la struttura del Paese. Oggi quei patti sono completamente saltati e si agitano forze qualunquiste e votate al massacro di piazza che pescano nella disperazione e nell’indignazione. Un nuovo patto sociale richiede una fase costituente e una leadership ispirata che possa rappresentare un modello di riferimento per una diversa italianità. Comici urlanti, ballerine e soubrette, professionisti dei talk show, professori incanutiti sono tutto quello che ci rimane?