In Italia il posto fisso non esiste più, o quasi. Nel terzo trimestre del 2012, secondo quanto emerge dall’Indagine Excelsior di Unioncamere e Ministero del Lavoro, le assunzioni previste a tempo indeterminato sono appena il 19,8% su un totale di quasi 159 mila, vale a dire due su dieci. Cifre che evidenziano un netto calo non tanto rispetto ai quattro mesi precedenti dell’anno, ma in particolare rispetto allo stesso periodo del 2011, quando le assunzioni stabili previste rappresentavano il 28,3%. Come se non bastasse, a conferma del fatto che le cattive notizie non giungono mai sole, ci si mette anche la relazione annuale di Bankitalia che mostra quanto le buste paga dei dipendenti siano al palo. Le retribuzioni medie reali nette, infatti, dal 2000 al 2010 sono aumentate solo di 29 euro, passando da 1.410 a 1.439 euro (+2%).
Risultati su cui ovviamente pesa la crisi economica, ma anche gli interventi che hanno coinvolto in particolare gli statali, per i quali sembra evitato il pericolo di un taglio delle tredicesime. I dati confermano inoltre il netto divario che tuttora permane tra Centro-Nord (+2,5%) e Meridione (+0,7%): in termini reali, nel primo caso si è passati da 1.466 euro del 2000 a 1.503 euro del 2010, con un aumento di 64 euro, mentre nel Mezzogiorno le retribuzioni sono passate da 1.267 euro a 1.276 euro, con una crescita di appena 9 euro. Secondo Emmanuele Massagli, vicepresidente di Adapt, contattato da IlSussidiario.net, «i dati evidenziati nell’indagine mostrano una tendenza che prosegue da diversi anni. Osservando le percentuali riguardanti la disoccupazione in Italia, in particolare quella giovanile che ha ormai raggiunto il 36%, non mi stupisce venire a conoscenza del fatto che le imprese preferiscono assumere a termine». Massagli ci spiega però che, allontanandoci dalla situazione nazionale e analizzando i mercati del lavoro delle diverse aree del Paese, «vediamo che al Nord un rapporto di lavoro con contratto a tempo indeterminato dura in media tra i tre e i quattro anni. Soprattutto in questo il gap tra Nord e Sud rimane nettissimo».
In un periodo di crisi come quello attuale, continua a spiegare Massagli, non è raro da parte delle imprese adottare in certe occasioni comportamenti opportunistici: «Osservando però il dato da un altro punto di vista, è chiaro che gli imprenditori stanno indirettamente inviando un segnale di disagio che riguarda il costo del lavoro e la pressione fiscale. Nel momento in cui il futuro di un’impresa resta ancora avvolto da una costante incertezza, è ovvio che non ci sia la volontà di impegnarsi a tempo indeterminato, soprattutto per evitare il costo del contratto».
La riforma del mercato del lavoro, continua Massagli nella propria analisi, ha fatto sostanzialmente una scelta: tra una maggiore o una migliore occupazione, è stato deciso di incentivare la seconda opzione: «E’ ormai chiaro che questi due aspetti non viaggiano insieme quindi la riforma ha scelto di puntare su una migliore occupazione disincentivando il lavoro temporaneo per portarlo verso l’indeterminato. Questo, inevitabilmente, porterà a una migliore ma certamente non maggiore occupazione: credo infatti che la maggior parte dei contratti a termine o a progetto in vigore fino al 18 luglio non verrà rinnovata a tempo indeterminato».
Analizzando le possibili soluzioni, Massagli spiega che attualmente, dal punto di vista normativo, purtroppo è stato fatto tutto il possibile. «Quello che ancora si può fare è abbattere il costo del lavoro, ma si tratta in sostanza della stessa richiesta che settimana scorsa ha fatto Confcommercio sulla pressione fiscale: se, come dice Befera, in alcuni casi si può arrivare a pagare il 70% di tasse, è chiaro che un imprenditore non potrà mai assumere a tempo indeterminato. Ora che la riforma, discutibile o meno, è entrata in vigore – conclude Massagli – probabilmente ulteriori interventi rischierebbero solamente di fare più danni».
(Claudio Perlini)