Pare che nessuno sia contento della riforma Fornero. I sindacati, le associazioni datoriali, i partiti. A parte che a questo punto vien da chiedersi come mai sia stata approvata, ma soprattutto di che tipo di svolta si tratti per il lavoro in Italia. Ne abbiamo parlato con Stefano Colli-Lanzi, amministratore delegato di Gi Group, la principale Agenzia per il lavoro italiana, presente in oltre 20 paesi del mondo e dal 2010 membro di Ciett, la confederazione internazionale delle Agenzie per il lavoro. L’ad di Gi Group ci racconta il nuovo ruolo sociale che le Agenzie per il lavoro stanno sempre più acquisendo, dalla gestione dei contratti alla gestione delle persone, cosa che può davvero coniugare flessibilità e sicurezza. «Credo che questa riforma porti qualche buon cambiamento, anche se un po’ nascosto – esordisce Colli-Lanzi. L’immagine è più negativa di quanto non lo sia la sostanza. Tuttavia questo passaggio legislativo avrebbe potuto essere un driver di cambiamento importante, si è persa l’occasione per dare messaggi forti. Ma credo comunque che ci permetta di fare dei passi avanti, si ara il terreno nella direzione giusta”.



Come mai questa ambiguità di fondo?

Il ddl iniziale aveva una sua identità che si è un po’ persa per strada, perché la leadership non è stata particolarmente forte. Il corpo e l’identità della riforma sono stati assaliti e mangiati dalla concertazione.

Cosa cambia di rilevante dal suo punto di vista?

C’è stato un irrigidimento delle possibilità di utilizzo degli strumenti di flessibilità in entrata (partite Iva, lavoro a progetto, anche il contratto a termine…), mentre sul versante della somministrazione questo non è avvenuto. C’è quindi una maggiore distanza di convenienza tra la somministrazione e il lavoro a tempo determinato, a favore della somministrazione: purtroppo questo messaggio non è stato dato in modo forte, ma si tratta pur sempre di un riconoscimento implicito del ruolo primario che hanno le Agenzie per il lavoro nella gestione della flexicurity.



Si è semplificato molto anche per quanto riguarda la somministrazione in apprendistato…

Aver aperto le porte all’apprendistato in somministrazione, in prima battuta solo con lo staff leasing e ora col ddl sviluppo a 360 gradi, è un aspetto molto importante che credo permetterà all’apprendistato di decollare. Dopodiché, la responsabilizzazione dei giovani, il ruolo della famiglia, l’interconnessione scuola-lavoro, non sono temi che si risolvono perché si fa il contratto di apprendistato.

Come vede le novità introdotte per le politiche attive?

Il passaggio non è forte, ma, considerando come si muovono le cose in Italia, ha la sua rilevanza. Le aziende che licenziano non sono ora costrette e non sono incentivate a fare azioni di politica attiva, ma nella conciliazione obbligatoria prevista entro sette giorni dal licenziamento è suggerita – oltre alla corresponsione di un’indennità – la definizione di una politica attiva nei confronti del lavoratore.



 

Che ruolo può avere un suggerimento di questo genere all’interno di una norma?

 

Da un punto di vista culturale è molto importante. Significa che c’è qualcuno delle parti sociali, il sindacato, che comincia a spingere su questo punto, anche se è indubbio che ci sia qualche miope resistenza. È un passo in avanti che richiede, da parte delle Agenzie per il lavoro innanzitutto e dei soggetti operanti, lo sviluppo di una cultura dell’outplacement e delle politiche attive nella gestione della transizione di carriera.

 

Cosa pensa dei cambiamenti rispetto alla flessibilità in uscita?

 

Anche in questo caso, non si tratta di un messaggio forte e chiaro sulla flessibilità in uscita, nessuna svolta epocale. Tuttavia, all’interno della normativa si è spostato l’asse dalla reintegrazione all’indennizzo. Per l’azienda questo è fondamentale: l’indennizzo è sempre misurabile in termini di massimo rischio.

 

Quali positivi effetti possono ricadere sul mercato del lavoro?

 

Questo porterà ad azioni più trasparenti e renderà il mercato del lavoro più dinamico, aprendo più spazi per i giovani e per chi deve entrare; ci sarà meno drammaticità nell’assumere a tempo indeterminato e l’apprendistato diventerà davvero uno strumento conveniente: attraverso l’azione delle Agenzie sarà più prossimo alle aziende, meno spaventoso dal punto di vista delle procedure e anche più efficace dal punto di vista della formazione.

 

Sono tutti cambiamenti che riconoscono il lavoro importante delle Agenzie e il loro ruolo sociale…

 

Le Agenzie per il lavoro innanzitutto sono un soggetto che già nel fare lavoro temporaneo migliora la condizione del lavoratore, perché la persona si ritrova ad avere un partner che è in grado di crescerla, formarla, trovarle un altro lavoro, pensare con lei un progetto di crescita professionale, cosa che una persona con un contratto a tempo determinato diretto, anche se perfettamente in linea con la legge, comunque non ha. L’azienda che prende una persona a termine, se ne ha bisogno solo per un periodo, non ci investe minimamente. E questo è un disastro per la persona, che non può lavorare senza che nessuno investa su di essa ed essendo usata solo per le capacità che ha. L’Agenzia investe sulla persona, mentre l’azienda può continuare a utilizzarne le capacità.

 

Lavorando sulle risorse umane, l’Agenzia può quindi essere un importante partner anche per le aziende?

Soprattutto per le piccole e medie imprese che sono più forti nella gestione dei loro prodotti, dei loro mercati. In una logica di outsourcing delle attività di gestione delle HR, l’Agenzia può svolgere anche un ruolo di educazione, di contributo all’educazione della crescita culturale delle nostre aziende che essendo piccole e non essendo esperte di queste materie faticano a crescere.

 

Il sistema delle Agenzie per il lavoro è pronto per questo nuovo corso sociale?

 

Le Agenzie stanno maturando una vision e una coscienza nuova. Tre anni fa, per esempio, pochissime erano sensibili al tema delle politiche attive. La stessa crisi ha obbligato il sistema a cercare degli sbocchi nuovi, e questi sono stati la stabilizzazione, l’apprendistato, le politiche attive… Secondo me, il sistema è giovane, ma c’è un’evoluzione positiva. Fino a oggi l’esperienza delle Agenzie è stata molto confinata all’esperienza marginale della flessibilità, ora saranno più attive sulla crescita e sulla continuità del lavoratore.

 

Possiamo dire che si tratta quindi di una flessibilità migliore?

 

È cambiato in meglio qualche aspetto fondamentale, che migliora le condizioni di flessibilità e porta la flessibilità verso la flexicurity. La flessibilità deve essere un fenomeno che agevola le imprese, ma allo stesso tempo non deve finire per pesare in termini di precarizzazione sul lavoro delle persone. Questo, lo dice anche il Papa, determina una difficoltà da parte della persona a concepirsi in una logica di continuità, di medio-lungo termine sia per quanto riguarda il lavoro, sia per quanto riguarda la sua crescita e la costituzione di una famiglia.

 

All’interno del carcere di Como, una vostra cooperativa forma le persone e le avvia al lavoro.

 

Anche il carcere è pensato come luogo educativo. Da questo punto di vista, l’esperienza che noi facciamo all’interno di un carcere ci dà la misura di quanto sia opportuno lavorare affinché questo succeda sempre di più, per l’efficacia educativa… Detto questo, la cosa che ci colpisce è vedere come chi è in questa condizione estrema, spesso coglie il senso del lavoro in un modo così profondo che questa profondità ci rende evidente che il lavoro è un bisogno originario prima che un diritto, un bisogno di potersi esprimere e di sviluppare le proprie potenzialità in una logica di bene, di costruttività. Inoltre, ci chiarisce anche il senso del lavoro che facciamo tutti i giorni: trovo sempre più fuorviante avere la logica economica, del profitto, come esclusiva… è fondamentale in termini di vincolo alla sostenibilità delle situazioni, ma non può diventare esclusiva. Questo fa perdere di vista il senso di quello che si fa, e se si perde di vista il senso di quello che si fa sono seri problemi. Questo è il vero significato che per me ha la responsabilità sociale d’impresa, nel senso che se un’impresa non è così responsabile non è un’impresa, non è nulla…

 

(Giuseppe Sabella)