Negli scorsi anni la fine del “luglio sindacale” coincideva con una corsa affannosa a chiudere alcune vicende, o almeno sistemarle per il mese di agosto, onde evitare di rimetterci le mani dalle spiagge o dai monti. Già dallo scorso anno le cose cambiarono, ci furono avvisaglie di “fatti agostani” che avrebbero potuto succedere, a tal punto che le parti sociali iniziarono a domandare provvedimenti a sostegno dell’economia: il Governo Berlusconi, in evidente affanno, si limitò a varare una manovra timida durante le vacanze, che tuttavia aveva al proprio interno qualche novità, come il famoso articolo 8 che mutava il profilo della contrattazione, assegnando a essa un valore di modifica alle leggi in materia di lavoro e suscitando le ire di alcuni giuslavoristi contrari all’iniziativa del Ministro di allora, Maurizio Sacconi.



La manovra conteneva altresì alcune disposizioni retroattive dell’intesa siglata tra le Parti sociali in materia di efficacia degli accordi aziendali, questione caldissima dopo le vicende Fiat di Pomigliano e Mirafiori; ma durante il mese di agosto emerse anche il timido tentativo di rimettere mano alle questioni pensionistiche, come il non riconoscimento dei periodi di militare e del riscatto oneroso della laurea per il pensionamento di anzianità.



È passato poco meno di un anno e sembra preistoria, avendo abolito (nel frattempo) il pensionamento di anzianità e molto altro ancora. Nel 2012 i sindacati arrivano a fine luglio con la netta sensazione che non si faranno grandi vacanze, anzi si potrebbe sostenere che è cambiato il paradigma della risposta circa la possibile domanda: cosa ci aspettiamo per settembre?

Il problema non è settembre, ma agosto, ovvero non ci si può più permettere di “chiudere” per qualche settimana: le vicende sono permanentemente all’ordine del giorno, sia che si chiamino Ilva di Taranto o le conseguenze della spending rewiew su pubblico impiego, distacchi sindacali, costi da tagliare per i servizi “pubblici” realizzati da Patronati e Caf, le questioni pensionistiche irrisolte o la scarsità di risorse economiche per gli ammortizzatori sociali in scadenza, accanto all’incremento (lento ma inesorabile) dei tavoli di crisi aziendali al ministero dello Sviluppo Economico.



La sensazione è che se i mercati non vanno in vacanza la stessa non se la possono più permettere né gli attori della politica, né i protagonisti delle Parti sociali. Ecco perché i dirigenti sindacali si stanno preparando a un agosto “in ufficio” o comunque all’erta e in costante reperibilità. Ma qual è l’aria che si respira nelle case delle organizzazioni del lavoro?

Oltre alla consapevolezza di una crisi perdurante e duratura, di un periodo di transizione molto lungo nel tempo e che sta mettendo a dura prova tutte le strutture produttive (industriali, artigianali, commerciali e dei servizi), con pesanti perdite di posti di lavoro e la conseguente drastica riduzione di occasioni e opportunità per coloro che si affacciano nel mercato del lavoro (giovani) o che ne sono ai margini (somministrati, atipici “non per scelta” e altre figure), le organizzazioni sindacali appaiono alla ricerca di più “bandoli” della matassa.

Generano gravissime incertezze gli estesi processi di riorganizzazione delle produzioni, con sedi di comando sempre più lontane (le multinazionali, i salotti finanziari globali, le delocalizzazioni), oltre alla netta sensazione di un ridimensionamento del ruolo nei processi decisionali: insomma, si può anche fare a meno del confronto e del consenso dei sindacati, al massimo si informano e si acquisiscono i pareri in modo “non vincolante”. È la fine della concertazione, probabilmente in modo irreversibile, almeno per questa fase politica e istituzionale.

In questo senso, se appare condivisibile la decisione circa l’abbandono di pratiche concertative fondate sui diritti di veto, sulla ricerca dei consensi extraparlamentari, sullo scambio a somma zero (cambiare tutto senza cambiare nulla), suscita invece molti interrogativi la strada dell’autosufficienza politico-parlamentare, intesa in senso stretto e senza una larga condivisone delle categorie sociali per il tramite delle loro rappresentanze. Pensare che decreti e decisioni assunte dai “tecnici”, con il solo avvallo del Parlamento, possano rappresentare la strada maestra (più corta e con meno interlocutori) appare una pia illusione, se non si afferma la comune consapevolezza di un compito che spetta a tutte le componenti sociali del Paese.

Vi sono verità da condividere senza scorciatoie: responsabilità diffusa, comportamenti improntati alla sobrietà, sussidiarietà a tutti i livelli, percorsi pazienti (anche faticosi) circa la necessità di condividere sentieri lunghi sotto il profilo economico, una rigorosità fiscale collettiva, una riduzione di taluni servizi ai cittadini.

Questi assunti dovrebbero tradursi in forme di patti sociali tra generazioni, categorie, gruppi merceologici ed economici, in provvedimenti condivisi nella consapevolezza che non sussistono alternative, pena l’incremento di disordini sociali estesi, finora risparmiati sulla nostra penisola a differenza di altri paesi europei.

Senza concertazione si può vivere, altra cosa è tenere ai margini forze sociali e rappresentative di interessi reali: ciò non rappresenta una saggia decisione, in particolare quando talune di queste forze (con un peso non marginale) continuano a esplicitare comportamenti responsabili e decisivi nei tavoli decentrati dei processi decisionali, quelli non conosciuti e non pubblicizzati dai media, ma fondamentali per il cammino dell’Italia e degli italiani.

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