«Una riforma di “soli” 4 articoli nei quali sono ammassati 265 commi, che spesso modificano o sostituiscono articoli e commi di altre leggi, mediante continui rinvii». Il Professor Antonio Pileggi, docente di Diritto del Lavoro all’Università degli studi di Roma “Tor Vergata” traccia un bilancio, a tratti impietoso, della Riforma Fornero. L’attenzione mediatica nel frattempo si è spostata su altri temi, ma la sostanza resta. «Il succo è lo stesso del disegno di legge originario, il numero delle norme uguale, ma la legge (n. 92 del 2012) è ora ancora più illeggibile e indigeribile. Mi domando cosa mai ci capiranno i “mercati” e gli “investitori stranieri” per i quali è stata scritta».
Professore, facciamo un passo indietro. Come giudica il risultato finale ottenuto dal ministro Elsa Fornero?
Partiamo da un dato. Nel disegno di legge originario gli articoli erano 69, inseriti in titoli e capi, con una rubrica che ne anticipava il contenuto, e almeno era possibile orientarsi. All’obiezione che gli articoli fossero troppi e che il nostro abnormemente obeso diritto del lavoro non ce la facesse proprio a ingurgitare l’ennesimo intruglio normativo i “tecnici” al governo hanno risposto con una trovata geniale: ridurre gli articoli da 69 a 4, trasformando i “vecchi” articoli in commi e sottocommi, senza, però, eliminare una sola parola. E la “semplificazione” è servita!
Troppo poco da un governo “tecnico”?
Direi di sì. L’unica “prospettiva di crescita” che vedo è quella dell’incertezza, con tutto quello che ne consegue. Che qualcosa non sarebbe andato per il verso giusto ho iniziato a temerlo già quando Elsa Fornero, nel presentare la riforma, si vantò di voler estendere l’articolo 18 ai licenziamenti discriminatori dei dipendenti di piccole imprese. Se lo fosse lasciato scappare uno studente all’esame di diritto del lavoro avrebbe corso il serio rischio di non superarlo. “È così da oltre vent’anni!” gli avrebbe sbraitato contro il docente. Ma il Ministro del lavoro del governo tecnico non deve affatto conoscere il diritto del lavoro. Deve “solo” riformarlo. È il gesto che conta. L’atto sacrilego. La prova di forza là dove altri hanno fallito. Il messaggio ai mercati e all’Europa. Come e quanto è stato “toccato” il simbolo conta relativamente poco. Tanto i “mercati” e gli “investitori stranieri” quell’articolo non lo leggeranno e non lo capiranno mai. Basta che si fidino del manovratore.
D’accordo, ma ai lavoratori e ai datori di lavoro in carne e ossa che con il nuovo articolo 18 dovranno fare i conti interessa capire com’è cambiato. C’è davvero maggiore flessibilità in uscita?
I licenziamenti nelle imprese medio-grandi sono stati resi effettivamente più facili. La reintegrazione nel posto di lavoro non è più la regola, com’era prima, per tutti i casi d’illegittimità del licenziamento, ma l’eccezione, per i soli casi più gravi. Ci sono due sole ipotesi marginali, assurde e assai equivoche in cui deve, o può, essere prevista la reintegrazione nel posto di lavoro nelle imprese cui si applica l’articolo 18: insussistenza del fatto contestato, o licenziamento intimato nonostante il fatto sia punito con sanzione conservativa dal contratto collettivo; manifesta insussistenza del fatto posto a base del giustificato motivo oggettivo di licenziamento. In tutte le altre ipotesi di illegittimità del licenziamento non è più garantita la conservazione del posto di lavoro, che il lavoratore perde, pur avendo diritto a un’indennità risarcitoria.
E i licenziamenti collettivi?
Quelli per riduzione del personale sono stati resi meno rischiosi per le grandi imprese che non hanno alcuna difficoltà a concludere quegli accordi sindacali che, secondo la nuova legge, sanano qualsiasi vizio della procedura. Gli eventuali vizi non sanati da accordo sindacale non rendono inefficace il licenziamento, che, pertanto, non estingue il rapporto, salvo un indennizzo da 12 a 24 mensilità. Solo la violazione dei criteri di scelta dei lavoratori da licenziare è sanzionata con la reintegrazione, ma se il datore applica criteri di scelta concordati con il sindacato, per quanto di dubbia legittimità, è ora estremamente difficile che un giudice faccia saltare l’accordo.
Per le piccole imprese invece?
Per le piccole imprese, invece, la disciplina dei licenziamenti non è affatto cambiata. Si è così drasticamente ridotto il differenziale di tutela tra dipendenti di imprese medio grandi e dipendenti delle piccole imprese e, dunque, il tanto biasimato “dualismo” di tutele nel mercato del lavoro. Ma ciò è avvenuto in una sola direzione, cioè riducendo le tutele contro il licenziamento illegittimo per i dipendenti delle imprese medio-grandi.
Dunque solo le grandi imprese sono state avvantaggiate dalla riforma con la flessibilità in uscita?
Sì, ma con un “piccolo” effetto indesiderato.
Quale?
Il “vecchio” articolo 18 era considerato “la madre di tutte le tutele”. L’ha sempre detto la Corte Costituzionale, creando la regola secondo cui la prescrizione dei crediti di lavoro non può decorrere durante il rapporto di lavoro, ma solo alla cessazione dello stesso, per quei lavoratori che, non essendo protetti dall’articolo 18, o da un analogo regime di stabilità reale, che garantisca, cioè, la conservazione del posto di lavoro in caso di licenziamento illegittimo, e temendo di essere licenziati, non eserciterebbero i propri diritti, che, dunque, finirebbero per prescriversi. Ma ora che il nuovo articolo 18 prevede un regime di tutela che a mio avviso non può più essere considerata “forte” e “reale”, ma “debole” e “obbligatoria” e coesistono due regimi di tutela differenziati essenzialmente solo per l’importo degli indennizzi la non calcolata conseguenza, è che la prescrizione dei crediti di lavoro, in futuro, potrebbe decorrere sempre dalla cessazione del rapporto di lavoro, anche per le imprese assoggettate al nuovo articolo 18, non essendo garantita, sempre e comunque, la reintegrazione nel posto di lavoro e non avendo il lavoratore alcuna certezza di conservarlo, nonostante l’illegittimità del licenziamento.
Per le piccole imprese trova però applicazione la rigidità in entrata introdotta dalla riforma?
Sì. Le norme sulle forme contrattuali flessibili, che la riforma ha irrigidito hanno carattere generale. Volendo mostrarsi equanimi nello scontentare tutti i “tecnici” hanno introdotto rigidità in entrata a bilanciamento, o a compensazione, della flessibilità in uscita, introducendo maggiori vincoli e costi per i contratti di lavoro diversi dal contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, per il quale i tecnici si sono inventati un nuovo nome d’arte: “contratto dominante”.
Ma poiché per le piccole imprese (non soggette all’articolo 18) nulla è cambiato sul piano della flessibilità in uscita (già garantita dall’attuale regime di licenziamento, rimasto immutato), la rigidità in entrata non ha bilanciamenti, contropartite, compensazioni che ne ammorbidiscano l’impatto.
A proposito della rigidità in entrata? Era necessaria per combattere la precarietà? C’è dietro un’idea?
Pur tra incoerenze, contraddizioni e ambiguità la riforma vorrebbe promuovere una sorta di scambio tra flessibilità in uscita e rigidità in entrata; tra tutela del posto di lavoro e tutela nel mercato del lavoro. L’idea è che se d’ora in poi sarà più facile perdere il posto di lavoro sarà però più facile trovarne un altro nel “mercato del lavoro dei sogni”.
L’idea di favorire l’occupazione rendendo più facili i licenziamenti e migliorando le tutele nel mercato è davvero un’idea nuova?
Direi proprio di no, era alla base della cosiddetta legge Biagi i cui obiettivi, poi falliti, erano esattamente gli stessi della riforma Fornero. Sulla base della supposizione che il lavandino del mercato del lavoro fosse otturato dall’articolo 18 che, intasandolo, faceva tracimare l’occupazione nella palude del lavoro nero, il disegno originario della legge Biagi prevedeva un articolo 18 “depotenziato” per i soli lavoratori in nero, o assunti a termine, che fossero stati regolarizzati e stabilizzati, o la cui regolarizzazione avesse fatto superare all’impresa la fatidica soglia dei quindici dipendenti. Si diceva: meglio un articolo 18 depotenziato che il lavoro nero o precario. Si ometteva, però, di dire che i lavoratori in nero, se si rivolgono al giudice del lavoro, emergono e si stabilizzano da soli, e pretendono l’applicazione dell’articolo 18 duro e puro. A ogni modo, quell’ipotesi di modifica è stata poi stralciata dalla legge delega a causa della rivolta di piazza.
Ora però alla riforma Fornero sembra riuscita l’impresa fallita dalla riforma Biagi. È stato depotenziato l’articolo 18 ed è stata varata la riforma degli ammortizzatori sociali. Favorirà l’occupazione in qualità e quantità come promette?
Non credo proprio. Non credo infatti che l’occupazione dipenda da una legge che renda più facili i licenziamenti. Se un’impresa ha bisogno di assumere assume, il problema semmai è il costo del lavoro, che la riforma Fornero ha aggravato. In ogni caso pesano troppe incertezza sul nuovo incomprensibile articolo 18. Troppa discrezionalità al giudice nell’individuare le ipotesi in cui è ancora consentita la reintegrazione. E quanto alla riforma degli ammortizzatori sociali vedo molte norme-manifesto e pochissima sostanza. Non mi sembra che l’indebolimento della tutela del posto di lavoro, sia stata compensato da un rafforzamento della tutela del lavoratore sul mercato del lavoro. E l’idea che il lavoratore, sentendosi le spalle coperte e potendo scegliere, possa ora sbattere la porta prima di essere licenziato, mi sembra francamente la scena di un film neorealistico.
A proposito. Che fine ha fatto la legge Biagi? È stata abrogata dalla riforma Fornero?
No, la riforma Fornero, con i suoi 69 articoli mascherati da commi si somma agli 86 articoli della legge Biagi. Gli approdi finali di quella controversa stagione di riforme, culminata, con un paio di colpi di coda della precedente maggioranza, in una sorta di diritto del lavoro da faccendieri, non è stata però rinnegata dai tecnici al governo.
A cosa si riferisce?
Penso alle decadenze-trappola disseminate ovunque per provocare la perdita dei diritti dei lavoratori derivanti da norme inderogabili di legge o di contratto collettivo, o ai congegni procedurali escogitati per provocare la rinuncia, più o meno consapevole, a quei medesimi diritti (artt. 31 e 32, l. n. 183 del 2010, cd. Collegato lavoro). L’indebolimento della tutela del posto di lavoro della riforma Fornero si innesta in questa palude normativa.
Ma con la rigidità in entrata si combatte la precarietà?
La precarietà si combatte sopratutto alleggerendo il costo del lavoro che sopratutto le piccole imprese non sono in grado di sopportare. Quello che intravedo io non è tanto una lotta al precariato a tutela dei lavoratori, quanto a tutela delle casse dell’Inps. Vedo poi anche un’esasperata logica compromissoria, derivante dall’essere il governo “servo” (in senso buono) di due maggioranze un tempo contrapposte, e, dunque, costretto a dare un colpo al cerchio ed uno alla botte. E così il punto di equilibrio è stato trovato nella ricetta “licenziamenti più facili, ma contratto subordinato a tempo indeterminato per tutti”. Non a caso l’hanno chiamato “contratto dominante”. Il re della giungla del mercato del lavoro.
Quindi, anche sulla rigidità in entrata non c’è una direzione chiara?
Non mi sembra. Ho l’impressione di un contentino per tacitare i tanti scontenti per via della flessibilità in uscita.
Dunque è più facile licenziare ma anche più rischioso assumere a termine o a progetto?
Sì, diciamo che può convenire essere assunti male piuttosto che essere licenziati male. Una volta resa la reintegrazione nel posto di lavoro un optional, riservato a poche “fortunate” vittime di licenziamenti ignominiosi, si rischia di ribaltare il gioco delle convenienze, e di generare iniquità nelle tutele. E’, oggi, più conveniente, per il lavoratore, essere estromesso da rapporto a termine illegittimo, ciò che gli garantisce la conservazione del posto di lavoro, o essere licenziato per un motivo inadeguato, senza l’osservanza delle procedure previste per il licenziamento disciplinare, o di quelle previste per i licenziamenti collettivi, ciò che non gli garantisce la conservazione del posto di lavoro?