Nell’ultimo mese le redazioni dei giornali sono state (giustamente) generose nell’assegnazione di pagine intere al tema del welfare aziendale e della contrattazione di secondo livello. Ha fatto scalpore, prima, la bozza di accordo sottoscritta dai sindacati con la direzione di Perugina avente a oggetto lo “scambio” tra minore retribuzione al dipendente in cambio dell’assunzione come apprendista del figlio (polemiche, invero, piuttosto intellettualoidi e tutte esaltanti una delle parole più abusate – e quindi oramai più equivoche – di questo decennio: merito). È stato, poi, precisamente descritto il bonus anti-crisi, comprendente misure di assistenza quali l’assicurazione dei costi sanitari per cure specialistiche e la copertura dell’acquisto dei libri scolastici dei figli, che elargirà Tod’s. Da ultimo, le principali testate giornalistiche italiane si sono interessate delle vere e proprie soluzioni mutualistiche che la Coop ha intenzione di strutturare per colmare il disimpegno del pubblico in materie prima di sua esclusiva competenza. Innanzitutto per i propri collaboratori, senza però limitarsi a essi. 



Sotto il capello definitorio, ormai di linguaggio comune, “welfare aziendale” stanno tutti quegli interventi contrattati al secondo livello o unilateralmente decisi dall’imprenditore che sono orientati al sostegno delle esigenze personali e familiari dei lavoratori, attuati sia per ragioni di ordine “etico” (responsabilità sociale e partecipazione indiretta ai buoni risultati di bilancio), che per una maggiore fidelizzazione e produttività del dipendente stesso. Invero non si tratta di nulla di nuovo. La dialettica tra imprenditori e lavoratori nelle imprese italiane ha sempre prodotto, quand’anche litigiosa e conflittuale, fantasiose soluzioni di welfare aziendale, che la scarsa diffusione dell’inglese e la povera letteratura giuslavoristica non permettevano di definire così, ma tali erano.



Senza richiamare i notissimi esempi della Olivetti di Ivrea o dell’Eni di San Donato, si può semplicemente ricordare che in molte medie e grandi aziende del Nord Italia sono andate affermandosi negli anni tecniche di assistenza ai lavoratori sempre più raffinate. Si tratta di misure, come è ovvio, che molto risentono dell’andamento economico dell’azienda e quindi del clima economico complessivo. Ciononostante, nell’ultimo periodo sono stati diversi gli accordi aziendali etichettabili come interventi di “welfare”.

È assai noto il “carrello della spesa” che dal 2009 Luxottica distribuisce a tutti i suoi dipendenti una volta all’anno. Nel 2010 Intesa San Paolo ha sottoscritto un contratto integrativo aziendale fondante il Fondo sanitario del gruppo, che, per le dimensioni della platea alla quale si rivolge, è certamente tra i primi in Europa. Barilla nel 2011 ha previsto una copertura assicurativa in caso di morte, invalidità permanente, assistenza sanitaria. Ferrero, nello stesso anno, ha previsto un servizio gratuito di assistenza medico ambulatoriale per i figli dei dipendenti in età pediatrica. Quest’anno Vodafone ha perfezionato un programma rivolto ai dipendenti con salario variabile che permette di sostituire fino al 70% della propria retribuzione (i bonus dei venditori o i premi risultato dei manager) con beni e servizi a condizioni fiscali agevolate: rette per gli asili e le scuole, corsi di lingua, servizi finanziari, sostegno alla salute. Sempre nel 2012 San Pellegrino S.p.A. ha concordato coi sindacati l’istituzione del “Congedo di paternità di due settimane”.



Diverse sono le soluzioni adottate: dall’acquisto di beni per i dipendenti sfruttando le economie di scala e la forza negoziale dell’impresa a soluzioni elastiche di orario di lavoro per favorire la conciliazione; da facilitazioni sanitarie e previdenziali fino alla formulazione di innovativi premi di risultato. Quel che accomuna le molteplici esperienze è l’invasione pacifica dell’azienda e delle relazioni industriali di ambiti prima totalmente esclusi dalla competenza e dall’interesse del contratto di lavoro, tanto individuale quanto collettivo (discorso a parte va fatto per i benefit da sempre concessi a dirigenti e quadri).

La ragione di questo sconfinamento è certo da ricercarsi nell’arretramento dello Stato, non più contabilmente capace di garantire quel welfare “dalla culla alla tomba” che pareva essere la direzione del nostro Paese solo qualche anno fa, prima che la recente crisi rendesse evidente che è impossibile creare benessere a debito. Ma questa osservazione da sola non spiega il recente successo del welfare contrattato. Sempre di più l’impresa è conscia che il benessere del proprio dipendente è fattore di maggiore produttività tanto del singolo (che riconosce all’azienda un’attenzione umana che va oltre il “fattore di produzione”), quanto del gruppo (grazie al migliore clima sociale). Può essere addirittura veicolo di maggiore affidabilità e stima del marchio tra la popolazione. Ecco quindi che attorno al tavolo delle trattative ci si incomincia a riunire non solo per negoziare scioperi, aumenti di stipendio e tagli del personale, ma le più ragionevoli e concrete misure per accrescere il benessere dei lavoratori.

È un passaggio evolutivo delle relazioni di lavoro non di poco conto, che si scontra con due possibili avversari, uno di matrice più datoriale, l’altro sindacale. Il primo sono le resistenze culturali verso il diffondersi di modalità di contrattazione collettiva indubbiamente più cooperative, che hanno, sussidiariamente, il proprio baricentro sul secondo livello più che sul primo (proprio perché prossimo al bisogno) e che, di fatto, determinano la partecipazione indiretta dei lavoratori ai risultati aziendali.

Il secondo è l’effettiva creazione di un clima negoziale responsabile. È chiaro che quando l’impresa fattura e spartisce utili, pochi sono gli ostacoli perché si concordino soluzioni migliorative per i dipendenti. Ma quando gli affari vanno male? Quanto concordato in periodo di “piena” può diventare peso insostenibile in stagione di “secca”. Se la contrattazione di secondo livello continua a essere considerata solo acquisitiva e mai peggiorativa (nell’ottica di preservare il livello occupazione, chiaramente, non per incentivare opportunismi datoriali), allora ben poca strada faranno questi esperimenti di welfare aziendale. Al massimo diventeranno elargizioni liberali individualmente decise dall’imprenditore, senza mai strutturarsi in un dialogo sindacale che porterebbe vantaggi a entrambi i contraenti. Ma il paternalismo è altra cosa rispetto al welfare aziendale.