Quella che tradizionalmente era una normale fase di passaggio è diventata oggi un’impresa, qualcosa possibile per qualcuno ma che rimane impossibile per tanti. È come se fosse una ricerca sottratta alle nostre capacità e affidata alla sorte, quasi una lotteria o una puntata sulla roulette. Certamente qualcuno ogni tanto vince, ma non è la regola bensì l’eccezione su cui è bene non fare troppo affidamento. Eppure il lavoro è una dimensione fondamentale dell’uomo e il suo reperimento non può essere affidato al caso, ma deve rientrare tra le dimensioni realizzative della vita. Per contrastare la deriva che ci porta a una fatalistica rassegnazione, bisogna comprendere bene cos’è il lavoro; come siamo arrivati a questo punto; cosa occorre fare per invertire questa tendenza.



Cos’è il lavoro. È la trasformazione della realtà per rispondere a un bisogno. L’uomo ha tanti bisogni. Ogni tanto decide di rispondere a una di queste esigenze e si mette a lavorare. Per lavorare occorrono dunque due cose: a) l’individuazione di un bisogno e b) trovare modalità idonee per rispondervi. Sono due condizioni apparentemente semplici, ma vale la pena approfondirle.



Individuare un bisogno al quale valga la pena di rispondere non è così ovvio. A parte i bisogni primari per capire che ho bisogno di conoscere, di amare oltre che di essere amato, di bellezza e di tante altre cose che possono arricchire la mia vita, occorre essere educati. Purtroppo spesso oggi veniamo diseducati, perché anziché essere indirizzati ai nostri veri bisogni, veniamo spinti a inseguire valori consumistici, utili a chi vuole fare profitti ma non sempre positivi per la nostra vita. Una delle tante diseducazioni ci porta a pensare che il lavoro sia qualcosa che ci debba essere dato da qualcuno, e che se non ci sono le condizioni, non c’è lavoro per me.



L’assurdo al quale siamo pervenuti è che da un lato esistono una montagna di bisogni insoddisfatti e dall’altra una vastissima disoccupazione. Ma cosa impedisce che usiamo le nostre risorse per rispondere ai nostri bisogni?

Come siamo arrivati a questo punto. Il lavoro è uno scambio. Io do qualcosa a qualcuno per riceverne qualcosa in cambio. Nella sua forma più classica ricevo del denaro in cambio di una prestazione o di un bene da me fornito. Alla base dello scambio vi è un rapporto di fiducia. Io do una cosa a te perché so che tu mi pagherai. Tu acquisti un determinato bene da me perché sai che è fatto a regola d’arte e che, qualora non funzionasse a dovere, te lo riparo o te lo sostituisco. Se non c’è fiducia lo scambio diventa impossibile. Ecco, quello che è venuto a mancare, progressivamente è la fiducia.

Un tempo il lavoro stesso era un luogo di educazione: la persona esperta trasmetteva il suo sapere al nuovo venuto per continuare insieme a portare avanti un progetto di bene. Questo avveniva a tutti i livelli. Nelle botteghe artigiane, dove il maestro curava i propri allievi e ne seguiva quotidianamente i progressi, nelle fabbriche, negli ospedali dove il primario formava i propri assistenti, nelle direzioni aziendali impegnate a formare i migliori talenti per assicurare la continuazione dello sviluppo aziendale.

Ora alla fiducia, al desiderio di raggiungere insieme nuovi obiettivi sempre più elevati, si è sostituita una difesa paurosa del proprio posto di lavoro, come se il collega fosse un nemico da cui difendersi, un pericoloso concorrente da cui tutelarsi. Al concetto di bene comune si è sostituito l’accaparramento individuale per accumulare quanto più possibile; al posto di una fratellanza e di una condivisione dei valori fondamentali si è instaurata una competizione assurda in cui l’altro è un limite alla mia libertà e alla possibilità della mia realizzazione.

Su questa prima distorsione se ne è inserita un’altra altrettanto pericolosa: il lavoro concepito come una torta. Se qualcuno ne prende una fetta più grossa ne resta di meno per gli altri. Eppure è vero esattamente il contrario. Per consentire a una persona di lavorare occorre che molte altre persone, prima di lui, lavorino seriamente. Occorre innanzitutto istruire la persona, insegnarle un mestiere, aiutarla a inserirsi nel contesto sociale, fornirle strutture funzionanti (trasporti, ospedali, ecc.), rendere disponibili sistemi di regole all’interno delle quali sia possibile operare. Generalmente chiamiamo mercati questi insiemi di regole ed esistono tanti mercati perché esistono diversi complessi di regole; per questo parliamo del mercato del lavoro, finanziario, dell’energia, dell’acqua…

Dove queste regole non sono praticate e dove questi scambi non avvengono le persone non riescono a lavorare. Non è un caso che la disoccupazione sia molto più elevata dove pochi lavorano e dove i servizi sono scadenti e molto costosi (al Sud e nei Paesi sottosviluppati) e che la disoccupazione sia molto inferiore dove tanti lavorano e dove le regole sono rispettate e condivise da una parte preponderante della popolazione.

Don Bosco per dare lavoro ai ragazzi di strada ha dovuto inventare gli oratori. Per aiutare gli albanesi a ripartire dopo il crollo del regime abbiamo dovuto inviare i nostri Carabinieri per ripristinare le regole basilari della convivenza. I bisogni sono infiniti e dunque anche il lavoro, cioè la risposta al bisogno, può estendersi senza limiti.

 

Cosa occorre fare per invertire la tendenza in atto. Occorre un giudizio: il lavoro è ciò che consente la mia realizzazione e ciò che mi lega strettamente agli altri uomini. Per realizzarmi devo capire il valore del lavoro, che non è qualcosa di negativo, quasi fosse una punizione da scontare. È la modalità con la quale si partecipa al cambiamento del mondo per renderlo migliore e più confacente al nostro bisogno. Il cristianesimo ha nobilitato il lavoro fino al punto di renderlo come la partecipazione all’opera del Padre, definito l’eterno lavoratore. Scoprire la bellezza e la dignità del lavoro è fondamentale per scoprire la mia vera dignità. Occorre poi capire il profondo legame tra il mio lavoro e quello delle altre persone. Il mio lavoro dipende, strutturalmente e necessariamente, da quello delle altre persone. Vediamo perché.

Il lavoro vero crea le premesse per il lavoro degli altri, estende le opportunità per tutti, mentre il lavoro a valore sottratto lo rende più difficile. Si ha lavoro a valore sottratto quando una persona anziché lavorare per il bene comune privilegia il proprio tornaconto personale e finisce per imporre un onere a carico della società.

Purtroppo sono numerosi gli esempi di lavoro a valore sottratto. Innanzitutto il lavoro mafioso: imponendo il pizzo, si rende più difficile l’esercizio di qualunque attività economica. Vi sono poi le varie forme di corruzione: il pubblico funzionario che prende la bustarella, il magistrato che altera una sentenza, il barone universitario che favorisce parenti e amici, sono tutti esempi evidenti di come sia difficile riuscire ad ottenere ciò che sarebbe giusto.

Ma esistono anche altri numerosi casi in cui, per difendere un proprio privilegio, si complica la vita degli altri. Si tratta di una casistica articolata di cui può essere utile dare alcuni esempi:

A) L’impiegato comunale che si lamenta per il troppo lavoro. Provate a offrirvi di aiutarlo a ridurre la pila di pratiche che giacciono sulla sua scrivania. Poichè il suo potere deriva dalla possibilità di mettere una pratica che sta al fondo sopra la pila, il suo potere è tanto più elevato quanto più alta è la montagna di documenti che sovrasta la sua scrivania. Piuttosto che farsi aiutare vi taglierebbe a fettine.

B) Il primario che, lavorando anche in una clinica privata, vi visita in ospedale. Dopo la visita vi dice quello che si dovrebbe fare e quello che si può fare in ospedale. Quando voi, cogliendo il divario tra esigenze e possibilità, provate a dirgli: “Professore, non si potrebbe …” e lui allarga le braccia con un gesto di sconforto per poi aggiungere: “Certo, se venisse in clinica …” non potete non nutrire almeno qualche dubbio sul reale interesse che ha quel primario nel buon funzionamento dell’ospedale.

C) Vi sono innumerevoli persone che, per non fare bene e fino in fondo quello che potrebbero, vi inondano di obiezioni e di lamentele sul fatto che va tutto male, che mancano i mezzi, che il Governo fa schifo… e così il bidello non pulisce le aule scolastiche, il vigile non prova a regolare il traffico, l’insegnate non si aggiorna e non prepara le lezioni.

D) I viziati. Pensate ai figli di papà, alle persone abituate a vivere a spese degli altri, senza mai impegnarsi a fondo con l’esistenza.

 

Conclusione. Fino a che l’altro è un nemico da cui difendersi la disoccupazione sarà molto elevata. Se l’altro diventa una risorsa di cui fidarsi le prospettive di lavoro si moltiplicano e la disoccupazione può essere drasticamente ridotta. La disoccupazione ancor prima che in leggi o in fattori economici risiede nel cuore dell’uomo, nella sua incapacità di accogliere il bene e partecipare all’edificazione del bene di tutti. Andando alla radice e agendo su questi fattori sarebbe possibile trovare lavoro per tutti quelli animati da buona volontà. Per questo c’è bisogno di educatori che sappiano aiutare gli uomini a giudicare e a trarre le conseguenze dei loro giudizi.