Il tribunale del Riesame si è pronunciato confermando il sequestro degli impianti a caldo dell’Ilva di Taranto. E ha deciso di non concedere la facoltà d’uso. Secondo i giudici, in particolare, il disastro ambientale di natura dolosa è tuttora in atto e si potrà rimuovere solamente a condizione di dar vita a misure d’intervento «imponenti e onerose»; che, in ogni caso, produrranno l’effetto desiderato solamente dopo lungo tempo. L’eventualità di una chiusura definitiva, quindi, incombe. Ma c’è una speranza: il Tribunale, infatti, ha anche dichiarato che spetta ai custodi (il presidente e rappresentante legale dell’azienda Bruno Ferrante, gli ingegneri Barbara Valenzano, Emanuela Laterza e Claudio Lofrumento) decidere sull’eventuale chiusura degli impianti e in merito al percorso da seguire per il risanamento. Una decisione giudicata dal ministro dell’Ambiente, Corrado Clini, a margine del Meeting di Rimini «convergente con quella del governo. Lavoriamo – ha aggiunto – nella stessa direzione, ora spetta all’Ilva investire». Abbiamo chiesto a Donato Stefanelli, segretario generale della Fiom di Taranto, come se condivide questa impostazioni.
Come giudica il pronunciamento della magistratura?
Il Tribunale del Riesame, per essere precisi, ha detto che non spetta ai giudici stabilire la chiusura dell’Ilva. Vuol dire, quindi, che sui custodi-amministratori incombe la responsabilità di accelerare e verificare la messa a norma da parte dell’azienda; che dovrà dimostrare in 40 giorni di avere la volontà e di essere in grado di predisporre tutte le procedure necessarie per mettersi in regola.
Perché 40 giorni?
Si tratta del termine entro il quale scadranno i termini per l’attuazione delle procedure obbligatorie per l’ottenimento della nuova Autorizzazione integrata ambientale (Aia); in questo lasso di tempo sarà necessario redigere un crono-programma degli interventi necessari e dei relativi investimenti per adeguare gli impianti sottoposti a sequestro alle normative europee e, quindi, per recepire le indicazioni del Gip. Un’operazione che potrebbe richiedere anni ma che, da qui a fine settembre, dovrà essere messa, per lo meno, nero su bianco. In sostanza, l’Ilva può che salvarsi da sola.
Cosa intende?
Dovrà dar vita ad ingentissimi investimenti. 156 milioni di euro, la cifra finora stanziata, rappresentano un segnale di buona volontà ma risultano ampliamente insufficienti rispetto all’impegno economico effettivamente richiesto per mettere in sicurezza la fabbrica e risarcire tutti i cittadini che sono stati colpiti da patologie derivanti dall’inquinamento prodotto dall’Ilva.
Clini ha detto che l’unica via d’uscita consiste in investimenti in innovazione e tecnologia
Sono d’accordo. Solamente dotandosi degli ultimi ritrovati della tecnica e adeguandosi ai più elevati standard europei si salverà la fabbrica risolvendo il problema ambientale.
Perché la proprietà dovrebbe ritenere un’operazione del genere conveniente?
Perché non ci sono alternative.
La chiusura…
Ci risulta che i Riva abbiano un’anima profondamente industriale. Di conseguenza, è auspicabile che non possano accettare che la loro fabbrica chiuda. Del resto, si tratta di un’occasione per cogliere svariate opportunità in termini, ad esempio, di finanziamenti stanziati a livello europeo.
La chiusura, in ogni caso, rappresenterebbe un disastro sociale come ha affermato il ministro Passera?
Sarebbe una catastrofe. La storia ci insegna che ogni volta che una fabbrica, in Italia, è stata dismessa, non sono state effettuate, in seguito, la dovute bonifiche. Chi vuole la sua chiusura non vuole bene né ai lavoratori dell’Ilva, né alla città, né alla causa ambientale; lavoro e salute procedono di pari passo e non si salva l’uno senza salvare l’altro. Sarebbe come buttare il bambino e tenersi l’acqua sporca. Senza contare il fatto che, tra i lavoratori della fabbrica e quelli dell’indotto, resterebbero disoccupati circa 20mila persone. Più altre 5 o 6mila provenienti dagli stabilimenti di Genova e Novi Ligure.
Come giudica la gestione della vicenda da parte del governo?
Bisogna dargli atto che un interesse del genere non è mai stato manifestato da nessuno dei governi precedenti; questa del resto, è uno dei motivi per cui si è arrivati dall’attuale situazione. Tuttavia, i 336 milioni di euro previsti dal protocollo d’intesa per la bonifica delle zone contaminate e contenuti in un decreto legge all’esame del governo sono del tutto insufficienti.
(Paolo Nessi)