Torna a farsi incandescente la situazione relativa allo stabilimento Alcoa di Portovesme, in Sardegna. Nella mattinata diversi operai sono scesi in piazza a Cagliari rendendosi protagonisti di una protesta clamorosa: aggirando il blocco delle forze dell’ordine sulle banchine del porto, si sono tuffati in mare nel tentativo di bloccare l’attracco di un traghetto della Tirrenia proveniente da Civitavecchia. Un atto ovviamente pericoloso, ma che dimostra il livello di esasperazione raggiunto dai dipendenti dell’Alcoa, stabilimento siderurgico di proprietà americana che lo scorso gennaio ha comunicato di voler chiudere la sede italiana. Marco Bentivogli, segretario nazionale della Fim-Cisl, contattato da ilsussidiario.net esprime tutta la preoccupazione per una situazione che non trova vie d’uscita, minacciando di lasciare a casa centinaia di lavoratori di quello che è già uno dei territori più poveri d’Italia: «La provincia di Carbonia-Iglesias raggiunge punte di disoccupazione pari al 33%. La paventata chiusura degli stabilimenti Alcoa renderebbe la situazione locale drammatica. È necessario che la presidenza del Consiglio prenda in gestione questa crisi perché, insieme con quelle dell’Ilva a Taranto e del gruppo Lucchini a Piombino, rischia di arrivare a una situazione esplosiva».



Bentivogli, ci riassume brevemente il caso Alcoa?

Il caso Alcoa è presto detto. È uno stabilimento siderurgico di proprietà americana. Agli inizi del 2012 dalla direzione di Pittsburgh arriva una email che annuncia la decisione di chiudere gli stabilimenti di Portovesme. Inizia da quel momento una lotta contro il tempo per cercare di risolvere la situazione.



Cosa avete chiesto all’azienda?

Abbiamo chiesto di ritardare i tempi di chiusura e abbiamo chiesto il massimo di garanzie sulla cessione dello stabilimento e per i lavoratori. È stato un braccio di ferro lunghissimo.

Se non sbaglio, a fine marzo è stato firmato un accordo con Alcoa che aveva suscitato buona impressione…

Ci fu un accordo tra il sindacato, il ministero dello Sviluppo economico e Alcoa che stabiliva delle modalità precise secondo le quali, nel caso ci fosse stata una manifestazione di interesse da parte di un possibile acquirente, si sarebbe ritardata la chiusura dell’impianto, chiusura che comunque veniva stabilita al primo novembre perché la proprietà calcola due mesi di tempo per giungere allo spegnimento completo degli impianti, in particolare le cosiddette “celle per l’elettrolisi”, utilizzate per la fusione dell’alluminio.



Cosa succede a questo punto?

A maggio compaiono tre possibili acquirenti. Il primo è Glencore, una multinazionale che si occupa di alluminio e di altri prodotti; il secondo è il Fondo Clash, che è un fondo equity ma ha anche impianti industriali; infine il terzo è il fondo austriaco Aurelius. Quest’ultimo viene reputato l’unico credibile per un acquisto, perché inizialmente dava quotazioni interessanti, mentre gli altri due gruppi offrivano il pagamento dell’energia a un prezzo molto basso. L’Alcoa è considerata una impresa “energivora” e pertanto godeva in Italia di una tariffazione agevolata, che le permetteva di essere competitiva. Ma, per un intervento della Unione Europea che le ha classificate come “aiuto di Stato”, queste agevolazioni sono venute meno. I due candidati acquirenti offrivano 25 euro al kWh, mentre con tutti gli aiuti possibili il costo si aggirava attorno ai 35.

Il fondo Aurelius invece…

Aurelius rialzava la speranza dei lavoratori, ma alla fine di luglio ha interrotto le trattative. Il motivo addotto è che Alcoa non dimostrava disponibilità adeguate. In realtà, le trattative si sono arenate perché si trattava di una vendita a prezzo negativo. A questo punto abbiamo ricontattato il Fondo Clash, che però ribadisce di non essere più interessato all’acquisto. Iniziano nuovi contatti con Glencore ma anche da parte di questa multinazionale arriva la conferma che lo scoglio sono i costi energetici. 

Nel frattempo i lavoratori perdono la fiducia nel salvataggio dell’azienda?

Il problema è che i lavoratori capiscono che la situazione è entrata in un vicolo cieco, con la proprietà intenzionata a chiudere lo stabilimento e senza un acquirente. L’ultimo lumicino di speranza è legato al previsto incontro, a fine mese, ancora con Glencore. I lavoratori hanno però percepito chiaramente che gli americani stanno attivando tutte le procedure per lo spegnimento degli impianti. E, come dimostra la vicenda dell’Ilva di Taranto, quando si spegne un impianto siderurgico la rimessa in moto è problematica.

Ma i motivi di Alcoa per la chiusura sono seri e fondati?

La decisione di chiudere rientra nella decisione di ridurre la capacità complessiva a livello mondiale di tutto il gruppo, per cui si inizia dagli stabilimenti che considerano meno competitivi. Questo sarebbe plausibile in una situazione imprenditoriale normale, ma in realtà Alcoa ha ricevuto moltissimi soldi dal governo italiano, per cui se si fa un bilancio di quanto hanno ricevuto, le loro ragioni non sono più plausibili.

E il governo italiano come si sta comportando in questa situazione?

Io stesso ho richiesto, proprio in queste ore, che l’incontro previsto il 5 settembre al ministero dello Sviluppo economico si sposti a Palazzo Chigi. Non per sfiducia nel ministero, ma la situazione sta diventando drammatica. Questa zona della Sardegna ha un tasso di disoccupazione che supera il 33%: se chiude questo stabilimento, si precipita nel baratro. Anche garantire l’ordine pubblico come abbiamo fatto fino a oggi, diventerà difficile.

Gli operai sono esasperati non solo a Portovesme, però…

Infatti. Sotto questo punto di vista abbiamo diversi focolai che da settembre inizieranno a diventare esplosivi: Alcoa in Sardegna, Ilva a Taranto, Lucchini a Piombino. Non è una semplice vertenza sindacale: la crisi della siderurgia è conclamata e la presidenza del Consiglio deve prendere sotto la sua responsabilità la gestione di questa crisi.