La crisi del lavoro, i continui dati sui disoccupati, inoccupati, su quelli che non cercano più lavoro, che sono in cassa integrazione, o sottoccupati, che non hanno un lavoro sufficiente per arrivare a fine mese: sarà un autunno drammatico, è l’allarme di Luigi Angeletti. Le scelte del governo le conosciamo: dal “salva Italia” al “cresci Italia”, dal “semplifica Italia” al decreto sviluppo. Ma sappiamo anche che le ricadute hanno bisogno di tempo, ha ricordato lo stesso Monti. È una politica dei “piccoli passi”, forse non sufficiente, visti i problemi aperti. Perché in gioco c’è quell’equità intergenerazionale che è la vera sfida positiva tutta ancora da giocare.



Non basta, dunque, la riforma Fornero, fatta di apprendistato, agevolazioni per l’assunzione di giovani e donne, limitazione dei contratti “usa e getta”, accesso alle indennità di disoccupazione più ampie. Il ministro Fornero, in diversi interventi, ha offerto un’ultima ricetta: “Ci sono rigidità per cui la retribuzione cresce sempre, ma non la produttività. Una crescita per la quale i lavoratori anziani finiscono con il costare troppo a fronte di una produttività discendente. Si tratta, chiarisce la Fornero, di correggere questo meccanismo e di prevedere la possibilità di impiegare i lavoratori anziani senza espellerli dal ciclo produttivo“. Questa proposta ha trovato di recente un puntuale commento critico su queste pagine da parte di Emmanuele Massagli. Vista l’importanza e la conferma di questo proposito riformatore da parte dello stesso ministro, penso valga la pena riprendere l’argomento.



La Fornero in realtà si rifà alla curva retributiva presente in Germania e in Gran Bretagna, una curva con la forma di una U rovesciata: all’inizio carriera basse retribuzioni, con un picco verso i 35-40 anni, età di massima professionalità e quindi di massima produttività, con una progressiva, poi, decurtazione con l’avanzare degli anni e quindi della capacità produttiva. In Italia, invece, non abbiamo curve, ma solo una linea retta verso l’alto, con l’anzianità di servizio, cioè, come unico criterio di progressione di carriera, all’interno della stessa mansione. Quindi un criterio solamente anagrafico, totalmente sganciato dalla professionalità. Secondo la Fornero, questo sistema va cambiato per un motivo, sostanzialmente: per innescare una flessibilità secondo professionalità, anche tenendo presente la riforma delle pensioni che costringe a una maggiore permanenza al lavoro.



In prima battuta, siamo in grado di verificare se la maggiore produttività in terra tedesca sia da imputare davvero alla curva retributiva: lì, anzitutto, diversa è la logica contrattuale, la quale, assieme agli investimenti tecnologici, garantisce una maggiore competitività e quindi una maggiore capacità di lavoro. Senza dimenticare le maggiori retribuzioni, per cui un lavoratore tedesco a fine carriera, considerata la curva, guadagna comunque come o più di un lavoratore italiano all’apice della carriera. Come ha ricordato Massagli, questo “modello, comunque minoritario tra le imprese, è dovuto alla lungimiranza degli accordi sindacali, più che dall’invasione della legge”. Un altro modo per dire: l’economia sociale di mercato, capace di andare oltre la logica dello scontro continuo tipico di parte della cultura sindacale italiana (la mistica della “lotta”), è la via d’uscita che anche l’Italia dovrebbe seguire per uscire dalla crisi, come forma avanzata di “concertazione”, come “cultura della solidarietà” in concreto.

Resta poi il rilievo: coloro che sono stati penalizzati dalla riforma delle pensioni rischiano di essere penalizzati anche per il calo della retribuzione degli ultimi anni di lavoro, sapendo invece che le famiglie stanno diventando sempre più la vera frontiera del welfare. Ma poi altre considerazioni andrebbero sottolineate. Pensiamo al ruolo dei “maestri del lavoro”, cioè ai lavoratori più anziani come portatori di esperienza, nel senso dell’impresa come luogo sì di lavoro, ma anche educativo di apprendimento del valore-lavoro, cioè ambiente formativo, di “formazione continua”, come mix tra continue novità e metabolizzazione qualitativa delle relazioni.

Il concetto di “produttività” va perciò rivisto, anzitutto in termini qualitativi, motivazionali, di gusto dell’intrapresa. Il che ci porta all’ultimo suggerimento di Massagli: “Riattivare il premio di produttività” in termini di “detassazione di quelle parti di salario legate a incrementi di produzione che l’attuale governo, per motivi di contenimento della spesa, ha ridimensionato”. Una scelta importante, perché punta a valorizzare il rapporto tra impresa e lavoratori in termini qualitativi, forieri di progettualità positiva attraverso la condivisione e la solidarietà, con “nuovi meccanismi retributivi senza mettere i lavoratori uno contro l’altro”.

Resta lo scoglio più duro: rompere l’automatismo dell’anzianità di servizio come unica prospettiva salariale, per interventi capaci di andare al cuore della forma economica di convivenza, cioè il valore-persona, vista nelle sue relazioni, competenze, disponibilità. Il pubblico impiego, su questo piano, andrebbe totalmente rivisitato.

Quindi non si tratta di “togliere agli anziani per dare ai giovani”, ma di riconoscere il valore di ciascuno, per la propria parte, per i propri ruoli, per le proprie competenze. A Bruxelles si sta riflettendo sulla cosiddetta “Youth Guarantee”, cioè sulla “garanzia giovani”, su un vero e proprio diritto di ogni studente che termina le scuole superiori o l’università a ricevere un’offerta di lavoro, di tirocinio-apprendistato o di qualche altro programma formativo.

Noi tutti, però, dobbiamo evitare di soffiare sul fuoco dello scontro inter-generazionale, anche se, lo sappiamo bene, non possiamo più far pagare ai giovani il conto degli errori del passato.