Il problema della Fiat? I sindacati. Non Marchionne, come dice qualcuno. Tantomeno la Famiglia. Ma i sindacati. Sergio il Grande, come lo vede Obama, è solo un dettaglio. Un prezioso accessorio nella lunga storia della prestigiosa casa automobilistica italiana, un diversivo, uno specchietto per le allodole. Dove le allodole sono proprio i sindacati. Con la Famiglia che perso ogni riferimento di saggezza motoristica dà ormai più volentieri il meglio di sé nelle mondane tribune calcistiche a contar coccarde. (Detto proprio tra parentesi: una volta leggevi sui giornali di Agnelli e Abete e pensavi a industriali e presidenti della Confindustria, oggi ti trovi a leggere di gol fantasma, scudetti virtuali, giochi di scommesse e via dicendo).
Ma torniamo al punto: la Fiat e i sindacati. Il problema sono loro perché tu non puoi guardare a uno come Marchionne e prenderlo sul serio. Se almeno una volta nella vita hai giocato a poker, o quantomeno hai visto le dirette su Sky un paio di sere, non puoi prendere per buono uno così. Marchionne bluffa. È fin troppo evidente. Lo ha sempre fatto, forse lo faceva già da piccolo, di certo lo sa fare benissimo. Non lo fa in America, dove di poker la sanno lunga, ma lo fa benissimo in Italia, dove tra fenomeni di briscola e Scalaquaranta c’è solo da scegliere.
Il presupposto è: alla Fiat non interessa un bel niente di fare macchine in Italia. Il motivo è che non ci si guadagna, non almeno nel modo che piacerebbe ai suoi azionisti, cioè lucrando su montagne di finanziamenti pubblici o vendendo auto così così in un mercato drogato dagli incentivi. Per questo si è fatta giusto comprare dalla Chrysler, ma fingendo di essere stata lei a comprare gli americani. E allora chi meglio di un giocatore di poker professionista poteva confondere le idee qui da noi?
Un giorno faccio le macchine in Polonia, un altro le porto in Serbia, un giorno dico che è meglio chiudere tutto, poi rilancio che mi compro pure la Opel, passa una settimana e punto tutto su Pomigliano, poi dico che non si può fare perché gli italiani al Sud non lavorano. Poi un bel giorno metto sul tavolo il rilancio più grande che c’è: Fabbrica Italia, 20 miliardi di investimenti tutti qui, grandi promesse, grandi auto, lavoro per tutti, e il miraggio di un Paese che riscopre magicamente la sua vocazione industriale.
Ora, fermiamoci un attimo. Un mio vecchio amico che legge molti giornali ma non parla mai con nessuno, e soprattutto non ha mai studiato economia, nel 2008 dopo la bancarotta della Lehman mi aveva detto serio serio: da questa crisi non usciamo prima di dieci anni. Ora, realisticamente, tu che sei un super amministratore delegato globale e che come giardino di casa hai il mondo, puoi pensare nel 2010, l’anno in cui la Fiat compra pagine e pagine di pubblicità per montare il miraggio di Fabbrica Italia, che la gente tornerà a comprare auto così in fretta? Senza che gliele regalino a colpi di sconti e incentivi? Con le fabbriche che licenziano? Con i salari che scendono? Con la benzina che sale? Con tu che per primo non sei disposto a pagare più di tanto uno che lavora?
Ecco, a dirla tutta io non ci ho mai creduto. E alzi la mano chi ha voglia oggi di comprarsi un’auto. Chi avrà voglia tra qualche mese o anno? Chi ci ha i soldi. Chi non preferisce un iPad. Invece ci hanno creduto i sindacati. Sia quelli che si son detti disposti a trattare su tutto, per mantenere la produzione qui da noi, cascandoci come allodole. Sia quelli che han fatto muro fin da subito, che così han fornito l’alibi perfetto a Sergio il Grande per dire che se in Italia non si può produrre è perché c’è il sindacato dei fannulloni. Tutti alleati nel tenere sotto scacco un Paese, migliaia di lavoratori e di cassintegrati, vari governi, e via dicendo. E così, passati due anni, dopo una serie snervante di tira e molla e di gare a braccio di ferro sul nulla, ecco la verità: Fabbrica Italia l’è morta. Ma va? Ma guarda un po’. Il motivo? Si vendono meno auto del previsto. Ma previsto da chi?
Ovvio che in America non è così. La Chrysler che la coppia Sergio-Barack ha risanato insieme è già tornata a fare utili, anche se buona ultima rispetto alle case sorelle d’America. Ovvio: negli States la benzina non si paga, senza l’auto sei morto perché non riesci a comprare nemmeno la cocacola, e poi là non hanno mica Monti e la Merkel, ma un signore che stampa soldi tutto il giorno e che spinge il Pil a botte di taurine e anfetamine varie. Cose già viste, insomma. Nella vecchia Europa invece le auto non si comprano più come una volta, e forse è giusto così. Quelle marche che stanno bene è perché vendono le flotte di auto blu a cinesi, russi e arabi, o comunque perché hanno in mente una cosa sola: fare macchine. Cioè pensare a un modello e provare a farlo per poi venderlo. Parlando poco e, soprattutto, parlando bene.
Se il sindacato fosse un vero sindacato, il nostro, oggi avrebbe solo una cosa da fare. Dire: “Occhei, siamo disposti a lavorare 12 ore al giorno, di notte e anche la domenica, anche a salario ridotto. Ma non per Marchionne e non per la Fiat. Solo per tutti gli altri che vorranno produrre in Italia”. Potrebbe anche finire che funziona. Una condanna? Un bluff. E poi vediamo chi si diverte.