Nel febbraio dello scorso anno, John Elkann e Sergio Marchionne – rispettivamente Presidente e Amministratore delegato di Fiat – confermavano al Governo gli obiettivi del progetto Fabbrica Italia: un investimento da 20 miliardi di euro per portare la produzione nel Paese da 650 mila a 1,4 milioni di vetture entro il 2014. La scorsa settimana l’annuncio che “le cose sono profondamente cambiate: il mercato dell’auto in Europa è entrato in una grave crisi e quello italiano è crollato ai livelli degli anni Settanta. È quindi impossibile fare riferimento a un progetto nato due anni e mezzo fa. È necessario infatti che il piano prodotti e i relativi investimenti siano oggetto di costante revisione per adeguarli all’andamento dei mercati”.
Quello che è successo, dopo questa comunicazione di Fiat, è cosa nota: subbuglio tra le Parti sociali, preoccupazione del Governo, imprenditori che criticano le scelte dell’azienda torinese e i soliti benpensanti che, bravissimi a fare i conti in tasca agli altri, parlano di bluff e di sfondamento del fronte confederale di cui si auspica – ma questo è un auspicio condiviso – una nuova unità.
Questo ci sembra il punto interessante: in nome di cosa il fronte confederale dovrebbe ritrovarsi? Poniamo che i benpensanti abbiano ragione: Marchionne sapeva sin dall’inizio che non avrebbe potuto investire quella cifra perché sapeva bene del crollo del suo mercato e ha utilizzato la favola di Fabbrica Italia per consentire a Fiat di approfittare e ottenere vantaggi dalla negoziazione con i sindacati che ha portato agli accordi di Pomigliano e Mirafiori.
Nell’intervista concessa dall’ad del Lingotto a Repubblica c’è però un passaggio significativo: “Repubblica fondata sul lavoro vuol dire anche essere competitivi, creare occupazione attraverso sfide e competizioni; questa cultura da noi manca”. Di questo vorremmo parlare e su questo punto crediamo che Marchionne lanci una provocazione importante. Come ha ricordato ieri su queste pagine Giuliano Cazzola, quando la Fiat ha messo in campo le sue esigenze per gli stabilimenti di Pomigliano e di Mirafiori è stata sottoposta a un vero e proprio linciaggio mediatico; eppure chiedeva solo di riorganizzare la produzione, perché apportando migliorie alla sua organizzazione aziendale ne avrebbe tratto giovamenti nel rapporto costi/produttività, riconoscendo vantaggi salariali ai suoi lavoratori. Ma la contrattazione aziendale – questo è ciò che ha diviso il fronte sindacale – è una richiesta del sindacato stesso: lo hanno più volte confermato gli stessi Bonanni e Angeletti che crediamo abbiano titolo per farlo.
Se guardiamo la storia delle relazioni industriali in Italia, dobbiamo ricordarci che gran parte del sindacato ha proposto, fin dalla metà degli anni ‘50, una visione dello sviluppo del sistema produttivo legato all’efficienza aziendale per poter rivendicare vantaggi per tutti i lavoratori. Solo in parte il sindacato si è sempre opposto a una contrattazione decentrata ritenendo che la produttività del lavoro e la retribuzione dei lavoratori fossero due variabili indipendenti. Questo è il punto su cui si differenzia l’azione sindacale: da una parte chi ha trattato con Fiat al fine di ottenere vantaggi per tutti i lavoratori; dall’altra chi rimane su posizioni conflittuali e poco inclini all’incontro tra capitale e lavoro.
In Italia rimaniamo legati a un dibattito sul lavoro che ancora non consente quel salto di qualità che può portare a vedere nell’impresa l’epicentro del lavoro: imprenditore è colui che crea lavoro e certamente il lavoro non lo creano il sindacato o la politica, anzi… eppure da sempre in Italia gli imprenditori non hanno vita facile: non è solamente la crisi, ma nella difficoltà sono stroncati dal peso della burocrazia e da leggi che non facilitano il contenimento dei costi.
Tornando alla contrattazione di secondo livello, permangono ancora resistenze all’interno del sistema confederale, e non solo da parte della Cgil, ma anche da parte di Confindustria, che naturalmente dalla contrattazione aziendale rischia di uscire indebolita.
L’uscita di Fiat da Confindustria può segnare un passaggio importante. D’altra parte, aziende grandi e piccole hanno nell’ultimo anno fatto scadere la tessera dell’associazione e altre hanno annunciato la loro dipartita: Ibm, Ansaldo, Fincantieri, ecc. Al di là dell’aspetto economico, il distacco di Fiat può rappresentare una critica lacerazione per il sistema industriale. Ma per lo più, il sistema imprese non sembra intenzionato a cavalcare l’onda: si pensi, per esempio, alla nota di Della Valle contro i “furbetti cosmopoliti” di Fiat e il sostegno di Cesare Romiti (incredibile ma vero!) alla Fiom come unico sindacato che si sia opposto a Torino. In questo modo l’Italia per le sue poco moderne relazioni industriali, per le sue tasse e cuneo fiscale, per una quantomeno discutibile azione giudiziaria nel lavoro (sono 70 le cause aperte dalla Fiom contro la Fiat) resta congegnata per deprimere l’impresa. Eppure continuiamo a parlare di crescita…
Diciamo anche che la bassa produttività che contraddistingue il Bel Paese – al di là delle facilitazioni di una regolazione che continua a tenere piuttosto “ingessato” il nostro marcato del lavoro – è anche e soprattutto causata da altissimi indici di assenteismo e da coloro che dal sistema lavoro si fanno mantenere. Produttività significa anche efficienza: l’industria e l’impresa italiana non brillano certo per efficienza. Questo perché la cultura conflittuale del lavoro rimane comunque molto forte e di fatto finisce con l’incentivare assenteismo e deresponsabilizzazione sulla base di vecchie e obsolete garanzie e sicurezze.
Per una volta, proviamo a pensare che l’industria dell’auto, con il suo carico di indotto, potrebbe davvero trasferirsi oltreoceano.
Domanda: quando inizieremo a pensare di rendere più attraente l’economia italiana per i nostri imprenditori e per gli investitori stranieri?