La forza delle relazioni industriali non sta nella inderogabilità di quanto concordato, come accade per le leggi, che cristallizzano i rapporti di forza o la volontà unilaterale del legislatore. Non sta neanche nella sanzione legata al possibile inadempimento: (quasi) nessuno negozia lungamente e firma un contratto per contraddirlo.
La contrattazione collettiva si fonda sulla volontà delle parti di autoregolarsi senza ingombranti interventi esterni; sulla capacità di rendere effettivo quanto concordato, attuando investimenti, assumendo personale, aumentando i salari, ecc. per la parte datoriale e riuscendo a comunicare ai lavoratori la bontà di quanto sottoscritto, rendendolo effettivo, per la parte sindacale; sulla fiducia e il crescente rispetto che si costruisce accordo dopo accordo, quando l’atteggiamento del sedersi al tavolo negoziale per non essere “fregato” (o per ingannare) lascia il posto alla coscienza che buone relazioni di lavoro comportano vantaggi per tutti. Per questo tradire un accordo sindacale, tanto più se complesso e sofferto, è atto grave, capace di generare incontrollabili reazioni a catena.
È quello che sta accadendo in questi giorni, dopo un’inaspettata dichiarazione dell’amministratore delegato di Fiat. Difficile capire se voluta (allora da spiegare meglio) o fraintesa (il “tiro” è stato effettivamente corretto nei giorni successivi). Il caso Pomigliano, per quanto estremamente circostanziato e lontano dalla dimensione usuale dei conflitti industriali del nostro Paese, ha fatto scuola.
Da due anni agita le riflessioni scientifiche dei giuristi del lavoro e dei relazionisti; mette alla prova le competenze (e la fantasia) dei giudici; alimenta trasversalmente il dibattito politico; ha determinato profonde lacerazioni tanto nel fronte sindacale (non solo metalmeccanico) quanto all’interno del mondo confindustriale. È stato l’accordo che ha fatto riscoprire l’articolo 19 dello Statuto dei lavoratori (facendo insorgere anche nel sindacato il dubbio che la legge 300 possa non essere più capace di leggere il mercato del lavoro); ha rilanciato la contrattazione decentrata (in questo caso diventata addirittura contratto collettivo specifico di primo livello); ha “messo il turbo” ai negoziati per la sottoscrizione dell’accordo interconfederale del 28 giugno 2011, firmato dalla Cgil anche perché ha ottenuto una chiara irretroattività che, altrimenti, avrebbe sanato (politicamente, non tecnicamente) proprio il caso Fiat; ha dato testimonianza della forza dei contenuti del successivo articolo 8 del DL 138/2011, che solo ora ha incominciato a mostrare la sua portata rivoluzionaria e che contiene una norma manifestatamente pro-accordo di Pomigliano; ha scatenato una profonda e ancora non conclusa riflessione sulle modalità di fare rappresentanza oggi e sull’esigenza di relazioni industriali partecipative per incentivare occupazione e preservare il reddito.
E ora? Si stava scherzando? Certamente no. I dati del mercato automobilistico sono noti a tutti, non sono confezionati da Marchionne. Dal 2010 a oggi la Fiat ha costantemente perso quote di mercato (e, per quanto riguarda l’Italia, siamo certi che quell’accordo e, ancor più, il modo in cui è stato descritto mediaticamente, non abbia determinato un calo delle vendite di Fiat?). La sottoproduzione degli impianti era segnalata dall’azienda come una delle ragioni del progetto Fabbrica Italia: negli anni è diventata ancor più grave.
Ma la Fiat non si dimentichi che per quell’accordo la maggioranza dei sindacati metalmeccanici si è giocata la faccia e la reputazione, credendo responsabilmente in un progetto che non è mai stato completamente dettagliato. Non si dimentichi neanche di quel 63% di operai che ha fatto una scelta tutt’altro che ovvia approvando il referendum di giugno 2010. Non si dimentichi, infine, che un repentino cambio di programmi di investimento sarebbe una pietra tombale sulle relazioni industriali del gruppo, che diventerebbero estremamente conflittuali, incapaci di creare valore (che pure serve abbondantemente) e dominate dalla sola Fiom, che non aspetta altro che poter dire: “Vedete, abbiamo ragione a dire (sempre) no”.
Certo, si può obiettare che il conto economico è una misura oggettiva; che il business esige scelte difficili; che la competizione globale non lascia sul campo superstiti; che le decisioni, alla fine, le fa la proprietà; che se fallisce Fiat il problema non è solo Pomigliano, ma vi saranno migliaia di persone che perderanno il lavoro. È la mediazione tra questi due estremi, senza ideologie, quella che dovrà tentare il premier Monti domani.
Nella speranza che dal confronto non solo esca una qualche soluzione, ma che questa non sia solo per Fiat (altri incentivi?), bensì l’occasione per “gettare il cuore”oltre l’ostacolo e convincersi a mettere in campo quelle tante misure che tutte le imprese richiedono, anche quelle che non vanno sui giornali e non frequentano i salotti buoni: minore tassazione per respirare e ripartire; meno burocrazia per essere più leggeri; regole del lavoro più semplici per incentivare maggiore occupazione.
@EMassagli