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Uno dei punti più importanti che la Riforma Fornero ha voluto affrontare è indubbiamente il ruolo dei contratti a tempo determinato. In gioco c’è infatti, ed in maniera sempre più decisiva, la possibilità per le aziende di perseguire quegli obiettivi di flessibilità che risultano così essenziali sia per la loro crescita competitiva che per quella di tutto il Paese. D’altra parte è appunto sempre più urgente la necessità che tale flessibilizzazione del lavoro non si trasformi nella precarizzazione di una crescente parte della popolazione.



Il contratto a tempo determinato, direttamente stipulato tra impresa e lavoratore, ha sempre avuto nel nostro Paese un peso importante. Ma in particolare con l’emanazione del decreto legislativo 368 del 2001, esso ha costituito lo strumento di flessibilità per antonomasia. Questo perché, per lungo tempo, si è ritenuto che fosse la modalità più adeguata per gestire le esigenze operative delle imprese e di sicurezza per il lavoratore, tanto che il suo utilizzo ha raggiunto in Italia ingenti quantitativi: nel 2011, a fronte di oltre un milione e mezzo di contratti a tempo determinato, figurano, ad esempio, solo 225mila contratti di somministrazione.



Ma cerchiamo di capire come è maturata questa convinzione e cosa ha condotto i vari attori in gioco ad attestarsi su questo giudizio.

Anzitutto il tempo determinato è legittimamente apprezzato – soprattutto se contrapposto a Partite Iva o collaborazioni varie – per essere un vero contratto di lavoro dipendente, capace di assicurare tutte le tutele del caso. In secondo luogo, si è sempre concepito il rapporto di lavoro direttamente stipulato con l’impresa come fosse un valore in sé, contrapponendolo, ad esempio, al contratto di somministrazione che – come è noto – si stipula con un’Agenzia per il lavoro. Per anni infatti si è continuato a ritenere che l’intervento di una terza parte all’interno del rapporto di lavoro fosse addirittura di per sé precarizzante.



A fronte di questo ragionamento ciò che dobbiamo chiederci è se questa conclusione sia corretta. Cioè: il tempo determinato stipulato direttamente tra azienda  e lavoratore è davvero il  migliore dei contratti possibili per gestire contributi lavorativi con durata e visibilità limitata nel tempo?

A ben vedere, infatti, l’idea per cui un rapporto di lavoro stabilito con un intermediario sia di per sé meno tutelante per il lavoratore rispetto ad uno stipulato direttamente con l’impresa, nasce probabilmente dalle “bad practices” legate al caporalato, che nel nostro  Paese hanno purtroppo costituito un pezzo di storia; tale idea risulta però alla prova dei fatti sempre più infondata e va dunque rivista criticamente. Occorre, cioè, fare lo sforzo di superare alcune barriere – certamente più corporative che concettuali – come quelle costituite dai conflitti di interessi esistenti tra i diversi sindacati di categoria, da una parte, e quelli degli “atipici” dall’altra, che tendono a spingere per l’utilizzo di uno strumento piuttosto che di un altro in funzione del numero di iscritti che, rispettivamente, ritengono di poter raggiungere e mantenere.

Tuttavia, se valutiamo in modo più pacato la security offerta ai lavoratori dal “normale” contratto a tempo determinato e la paragoniamo a quella offerta dalle Agenzie per il lavoro, a parità di flessibilità, la prima risulta essere decisamente inferiore. Infatti, il lavoratore che entra direttamente in azienda si ritrova ad essere tendenzialmente solo, le sue competenze vengono utilizzate senza particolare attenzione al loro sviluppo e, forse ancor più importante, egli non viene supportato nei periodi di inoperatività.

Il lavoro a tempo gestito dalla Agenzie, viceversa, oltre ovviamente a tutte le tutele del lavoro dipendente, offre al lavoratore un prezioso supporto – sia di orientamento professionale che contrattuale – all’inizio della relazione con l’azienda e un ancor più importante sostegno durante il rapporto lavorativo, arrivando al punto di offrire al dipendente varie opportunità di sviluppo personale, anche attraverso momenti di formazione ad hoc, volti ad accrescere la sua employability nel tempo e addirittura in alcuni casi a dare continuità al rapporto attraverso la stabilizzazione del contratto a tempo indeterminato. Il supporto al lavoratore preso in carico dalle Agenzie non finisce, inoltre, nel momento in cui viene impiegato presso il cliente, ma al contrario continua, in ottica win win, nel reciproco interesse di potergli offrire una nuova collocazione successiva.

Malgrado questo evidente differenziale di security, fino ad oggi le parti sociali – sindacati, associazioni, istituzioni – non hanno mai voluto considerare adeguatamente il diverso e maggior valore introdotto dalla capillare presenza sul territorio delle Agenzie per il Lavoro. Oggi appare persino paradossale, ma si è sempre sostenuto che un lavoratore a termine direttamente assunto, ad esempio, da Fiat, potesse godere di opportunità e diritti superiori a quelli che una ApL sarebbe stata in grado di garantirgli. E questo strano modo di guardare alla realtà risulta ancor più incomprensibile se si pensa alle migliaia di piccole e piccolissime aziende che non hanno né le competenze, né tantomeno il tempo da dedicare alle politiche del personale nella gestione dei loro lavoratori.

Da questo punto di vista va detto che la Riforma, anche senza eccessivi squilli di tromba, sembra però, per la prima volta, aver sovvertito queste radicate convinzioni: ad un attento sguardo complessivo alle norme varate, va in effetti dato atto al ministro Fornero di aver contribuito notevolmente in tal senso.

Come? Rendendo molto più difficile la reiterazione dei contratti a tempo determinato,  mantenendo rigidità nelle proroghe, limitando la lunghezza del rapporto a tempo determinato a 36 mesi – prima di incorrere nell’obbligo di stabilizzare il lavoratore – ed elevando il costo dello strumento con l’addizionale Aspi – che non incide invece nei contratti di somministrazione – la Riforma ha di fatto implicitamente ribaltato il regime di convenienza a favore dei contratti di somministrazione, confermando finalmente in tal modo il principio della primarietà della somministrazione come forma migliore di flexicurity rispetto al “normale” contratto a tempo determinato.

Tutto ciò è così vero che oggi, incredibilmente, sembrano esserci le condizioni per trasformare questo messaggio implicito, quantomeno non negativo nei confronti della somministrazione, in una indicazione positiva, caratterizzando così ulteriormente la somministrazione come lo strumento chiave per la gestione della flessibilità in entrata.

Ci sembra infatti che la Riforma sia portatrice di un messaggio di fondo che, se correttamente intrepretato, può davvero dare una svolta importante al mercato del lavoro nel nostro Paese: oltre a voler infatti condurre il più possibile le aziende ad utilizzare i contratti a tempo indeterminato quale forma stabilizzante per i lavoratori – fatto, questo, certamente auspicabile, anche se da accompagnare probabilmente con qualche ulteriore ritocco alla flessibilità in uscita – il legislatore sembra aver voluto indicare la necessità che ogni contratto venga utilizzato per uno scopo specifico e funzionale al mercato. Tre sembrano infatti essere le scansioni possibili: l’apprendistato, per inserire i giovani nel mondo del lavoro, così da ridurre il disallineamento scuola-lavoro e offrire loro la possibilità di un successivo impiego a tempo indeterminato; il contratto a termine, per  specifiche esigenze di lunga durata o per effettuare un periodo di prova con tempi sufficientemente lunghi, utili solo in determinati casi; il contratto di somministrazione, per corrispondere alle esigenze di flessibilità – sempre più caratterizzanti l’economia globalizzata – che le aziende devono poter attivare, quando occorre, attraverso partner qualificati come le agenzie per il lavoro.

Questa sembra essere la strada maestra da seguire. E proprio di chiare strade maestre, il più possibile condivise, il nostro Paese ha bisogno per intraprendere quella traversata del deserto che lo attende e che, sola, può permettergli di uscire dallo stato depressivo in cui si trova.

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