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La riforma del mercato del lavoro, intervenendo sulle tipologie contrattuali presenti in Italia, ha voluto rafforzare l’utilizzo del contratto a tempo indeterminato, nel tentativo di porre fine all’uso distorto di altre forme di lavoro falsamente non subordinate e di limitare la diffusione di forme di cattiva flessibilità. Questo intervento ha finito però per focalizzarsi più sulla rimozione delle criticità (pars destruens) che su un’autentica e percorribile proposta di sviluppo (pars costruens).
Ma in un contesto come l’attuale, che necessita di indicazioni chiare e di strumenti validi, che facilitino la ripresa, lo sviluppo economico e quindi la creazione di nuovi posti di lavoro, può forse essere sufficiente che il governo permanga su linee difensive, che mirano solo a contenere i danni derivanti da una cattiva flessibilità? Possono Confindustria e sindacati attestarsi su una resistenza ad oltranza e combattere solo per ottenere una restaurazione – chi dell’articolo 18, chi del contratto a progetto – in una battaglia di retroguardia? Possiamo permetterci nell’attuale situazione di essere frenati, nell’inevitabile e auspicabile processo di innovazione del mercato del lavoro, da arcaici e radicati pregiudizi ideologici che identificano la flessibilità come sinonimo di precarietà, a prescindere dalle modalità con cui viene gestita?
La risposta non può che essere “no”. Non possiamo più subire acriticamente vecchi schemi, che non ci consentono di leggere l’attuale situazione, molto diversa da un tempo. In cosa, in particolare, risulta infatti mutata?
Da un lato nel fatto che il mondo chiede alle aziende sempre maggiore flessibilità, rendendola un dato inevitabile; dall’altro dobbiamo renderci conto che questa richiesta di flessibilità coinvolge sempre più persone, che non sono naturalmente in sintonia con questa situazione ma che, al contrario, hanno bisogno di stabilità per costruire un percorso personale e professionale.
Il tema della flessibilità in entrata in particolare è infatti decisivo e non va sottovalutato, riguarda complessivamente più di 5 milioni di persone, ed in particolare coloro che sono temporaneamente disoccupati senza avere qualificazioni specialistiche: almeno inizialmente questi soggetti potranno probabilmente ritrovare un posto solo attraverso forme di lavoro flessibile. Inoltre, il contesto economico generale è oggi fortemente depresso e, anche qualora dovesse gradualmente iniziare a riprendersi, necessiterebbe, ancor più di prima, di buona flessibilità; il che rende quindi assolutamente decisiva e fondamentale l’individuazione di soluzioni volte ad evitare il rischio che la necessaria flessibilità si trasformi in pericolosa precarizzazione per i lavoratori coinvolti.
Tutto ciò richiama con urgenza alla necessità di individuare soluzioni che permettano di raggiungere l’obiettivo della flexicurity. Se, infatti, si ritiene che esistano convincenti strumenti, capaci di garantire flessibilità e sicurezza, appare evidente che essi non devono essere biasimati ma piuttosto indicati come una strada positiva da percorrere.
Chi scrive è convinto, a questo proposito, che il lavoro somministrato attraverso le agenzie per il lavoro – che operano tra l’altro in un sistema come quello italiano, ben regolamentato e sostenuto da un positivo dialogo sindacale e dalla bilateralità che ne è scaturita – costituisca un’ottima soluzione: non solo nell’assistere le aziende nella gestione dei lavoratori a tempo, ma sempre più anche nel supportare le persone sia durante che dopo gli incarichi lavorativi, con lo scopo di svilupparne l’employability e di offrire loro ulteriori possibilità di inserimento professionale. La somministrazione si configura così come la strada maestra della flessibilità sicura, in grado di scalzare via via le varie forme spurie – come ad esempio la varie modalità di lavoro autonomo impropriamente utilizzate – riducendo l’impatto devastante dei surrogati a basso costo del lavoro dipendente, ma anche ponendosi come una soluzione migliore del più strutturato e “normale” contratto a tempo determinato, che tende a favorire lo sfruttamento delle competenze del lavoratore e non il loro sviluppo.
L’utilizzo delle agenzie consentirebbe in tal modo di affrontare integralmente le esigenze delle parti in gioco. Ma se le cose stanno così, una valida proposta potrebbe allora essere quella di indicare tre principali strumenti per la gestione della flessibilità in entrata: la somministrazione come strada maestra, in grado di garantire la migliore flexicurity possibile anche nella fase di ingresso o reingresso nel mondo del lavoro; l’apprendistato, inteso come la via normale di inserimento professionale stabile dei giovani – e su questo tema, a onor del vero, qualche sforzo di comunicazione e qualche passo avanti è stato fatto, se non altro consentendo alle agenzie di farsene carico e di somministrarlo direttamente -; infine il contratto a tempo determinato, che può assolvere efficacemente al compito di gestire missioni per progetti non reiterati (ad esempio il lavoro stagionale) e consentire adeguati periodi di prova finalizzati ad un inserimento a tempo indeterminato.
Una proposta, questa, che sembrerebbe convincere tutti. Ma allora perché non portarla avanti insieme, sindacati, associazioni datoriali ed operatori di settore?
Il governo stesso, se avesse il coraggio di indicare nella somministrazione non solo un valido strumento ma anche la strada maestra per la flessibilità in entrata, avrebbe la grande chance di aggiungere ad una riforma che appare un po’ cupa un messaggio fortemente positivo; meglio ancora se sviluppando, attraverso ulteriori incentivi normativi ed economici, lo spazio per una più rapida ed efficace diffusione di questo istituto, che potrà essere così decisivo per costruire la buona occupazione nel nostro Paese.