Ieri Susanna Camusso ha proposto di detassare le tredicesime per rilanciare i consumi e dare un po’ più di ossigeno ai lavoratori. Il suggerimento del segretario generale della Cgil è solo uno tra i tanti che il sindacato si sta prodigando a dare al governo Monti, proprio mentre riprende la discussione con le parti sociali su crescita e occupazione. Ilsussidiario.net ha chiesto ad Agostino Megale di commentare le proposte che la Cgil rivolgerà all’esecutivo nell’incontro dell’11 settembre. Megale, segretario generale della Fisac, il sindacato dei bancari della Cgil, e presidente di Istituto studi, ricerche e formazione sul lavoro banche e assicurazioni, non si è risparmiato due stoccate: una sulla riforma del lavoro che penalizza i giovani e una sulla (mancata) politica industriale del governo. Vediamo quali sono.
Il segretario generale della Cgil ha detto che, nel momento attuale, più che di crisi di produttività è meglio parlare di perdita di produzione. Cosa deve fare il governo?
Ciò che manca è una vera e propria politica industriale. Il governo dovrebbe mettere al centro dell’agenda per la modernizzazione del paese due priorità assolute: un piano straordinario per la buona occupazione, in particolare dei giovani, e una strategia di politica industriale. Andrebbe ripresa la strategia per l’industria 2015, messa in campo dall’allora ministro per l’industria Pierluigi Bersani. Bisogna trovare misure di sostegno all’innovazione, alla ricerca e alla crescita dimensionale d’impresa.
Un esempio concreto?
La prima cosa da fare è dare una risposta ai precari, soprattutto i giovani e quelli del pubblico impiego. Penso in particolare ai precari della scuola da stabilizzare. Il governo Monti era partito immaginando di dare una risposta alla precarietà dei giovani, ma poi ha prodotto una riforma che darà molto lavoro in più agli avvocati senza creare nessun nuovo posto di lavoro. Occorre sostenere i giovani nella fase di avviamento e incentivare la trasformazione dei contratti precari. È questa la scommessa della fase attuale e del prossimo futuro.
Intanto la disoccupazione giovanile è in aumento. Siamo passati dai 7,3 milioni di occupati under 35 nel 2007 a 5,8 milioni, pari al 20% in meno. Ma non diminuiscono i contratti a progetto e le forme di lavoro precario. Lei che idea si è fatto?
Sono forme di lavoro che devono trovare un loro percorso di stabilizzazione. Devono essere accompagnate da diritti che, o la legislazione o i contratti nazionali, devono prevedere. In Italia non possono esistere tre mercati del lavoro: quello per il lavoratore stabile, quello per il precario e il mercato del lavoro sommerso e nero.
Il segretario generale ha proposto di detassare le tredicesime di lavoratori e pensionati con i soldi recuperati dall’evasione. È fattibile conti alla mano?
Siamo in una situazione di recessione piena in cui calano i consumi in proporzione al crollo dei redditi delle famiglie. Sostenere la domanda interna può avvenire solo sostenendo i redditi. E l’unica modalità per farlo è riducendo le tasse sul lavoro.
E per chi la tredicesima non sa neanche cosa sia cosa proponete?
Non solo andrebbe detassata la tredicesima per i lavoratori dipendenti, che ce l’hanno. Ma dobbiamo immaginare anche una riduzione della tassazione in quota analoga nel periodo natalizio per i lavoratori a progetto. Si tratta di una soluzione propedeutica ad una riforma del fisco che abbatta le tasse sul lavoro.
Ma si dice che non ci siano le risorse per farlo…
Anzitutto si potrebbe cominciare a destinare a questo uso ogni euro recuperato dalla lotta all’evasione. Siamo maglia nera in Europa quanto a economia sommersa (27% del Pil). Inoltre si potrebbe introdurre l’imposta patrimoniale su redditi e patrimoni oltre gli 800mila euro come fanno in Francia. Una parte di questi proventi potrebbe andare a ridurre le tasse sul lavoro, un’altra a sostenere il piano straordinario per la crescita e l’occupazione. E andrebbe abbassato il limite di tracciabilità da 1000 a 300 euro. Così si potrebbe immaginare di recuperare 30 o 40 miliardi nei prossimi 4 anni. Non saranno i 120 miliardi di evasione ma darebbero comunque risorse utili.
Il ministro Passera sta preparando un piano per la crescita. Qualche suggerimento?
Anzitutto serve una politica per la crescita dimensionale delle piccole imprese e per l’innovazione come condizione per superare il differenziale di produttività tra il nostro paese e paesi come la Germania, la Francia e la Gran Bretagna. Sia la politica industriale tramite incentivi sia l’erogazione del credito da parte del sistema bancario alle piccole e medie imprese pertanto vanno ancorati a obbiettivi programmati di crescita della produttività. Si badi bene che il tema non è la produttività individuale, poiché in Italia si lavora 1778 ore mentre in Germania 1409. Nelle medie imprese, il cosiddetto quarto capitalismo, la produttività italiana è più alta di quella tedesca. E per conseguire questo obiettivo bisogna anche ridurre le tasse sui redditi e rapportare il salario alla produttività, adottare un piano straordinario per l’occupazione e politiche di incentivi alle imprese. In particolare, oltre al sostegno dell’innovazione, bisogna promuovere con politiche adeguate una dimensione più grande delle piccole imprese. Anziché 4,3 milioni di imprese con 3,5 addetti l’una, dovremmo guardare alla Germania che ha 700 mila imprese e una media di 13/14 dipendenti.
Francesco Forte, intervistato sulle colonne di questo giornale sul piano Passera, ha messo in guardia da ritorni ad un’impostazione verticistica dei contratti, specificando che si tratta di una “prospettiva che di recente è stata ribaltata dai contratti proposti per Fiat Auto da Sergio Marchionne”. Lei cosa ne pensa?
Oggi le regole sono quelle stabilite dall’accordo del 28 giugno. Più che parlare di deroghe al contratto nazionale, si impone l’esigenza di allargare la contrattazione a tutti quei sistemi di piccola impresa che in quanto troppo piccoli hanno una produttività troppo bassa. Allargando la contrattazione si può promuovere la produttività ancorando ad essa il salario. Le scelte di Marchionne hanno fatto male al paese e ai lavoratori. Sono scelte che non hanno avuto a mente l’interesse nazionale. Di promesse è pieno il mondo, ma le sue si sono dimostrate chiacchere. Non sono seguiti i fatti. Non è un esempio da imitare né per il paese né per i sindacati. Anzi dovrebbe far riflettere i sindacati che a quel momento hanno dato credito.
È in vista una nuova tornata di scioperi?
Il governo Monti, che ha dato una buona immagine dell’Italia nel mondo, non ha saputo fare una politica all’insegna di equità, crescita e lavoro. A partire dalle scelte micidiali sugli esodati, dall’incapacità di delineare una politica per la crescita e dall’assenza di una politica fiscale. Su questi punti bisogna incalzare il governo che deve dare risposte esplicite già dall’11 settembre. Se non ci saranno, una mobilitzione comune è da auspicare, fino anche a convocare uno sciopero generale, possibilmente unitario.
(Matteo Rigamonti)