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Tra i principali obiettivi perseguiti dalla Riforma figura certamente il tentativo di ottenere una maggiore flessibilità in fase di uscita dal rapporto di lavoro e una migliore flessibilità nella fase di entrata nel mercato del lavoro.
Per quanto concerne la flessibilità in uscita, la Riforma, nel suo impianto originario, puntava a costruire un sistema magari più costoso per le imprese, ma certamente più flessibile, oltre che più garante di certezze: obiettivo raggiunto solo parzialmente. C’è infatti stata un’evoluzione nell’articolo 18, con il conferimento di un maggior ruolo all’indennizzo, ma poi non si è avuto il coraggio di arrivare ad eliminare definitivamente l’istituto della reintegrazione, che pur è stato obiettivamente limitato.
In entrata la situazione è invece piuttosto composita ed interessante, perché il deciso irrigidimento apportato dalle modifiche introdotte per le collaborazioni a progetto, le Partite Iva o i contratti a tempo, stanno spingendo le aziende ad un cambiamento degli strumenti che fino ad ora – ahimè, non sempre propriamente – hanno utilizzato per gestire la flessibilità necessaria.
In particolare, per forme di parasubordinazione quali Partite Iva e collaborazioni a progetto, c’è stata una netta riduzione dell’area di applicazione. Saranno infatti considerate vere Partite Iva solo quelle con un contenuto professionale elevato e con un reddito annuo da lavoro autonomo non inferiore a 18.663 euro. In caso di retribuzione inferiore, i vincoli saranno anche altri: la durata della collaborazione non deve superare gli otto mesi all’anno (per due anni consecutivi); il corrispettivo pagato non può essere superiore all’80% dei corrispettivi annui complessivamente percepiti dal collaboratore, sempre per due anni consecutivi; il lavoratore non può avere una postazione fissa in azienda. Nel caso del lavoro a progetto è richiesta una definizione più stringente del progetto, con una contestuale limitazione a mansioni non meramente esecutive o ripetitive, analoghe a quelle di un dipendente dell’azienda, oltre al rispetto di minimi retributivi tabellari e all’aumento dell’aliquota contributiva di un punto all’anno, a partire dal 2014, sino a raggiungere, nel 2019, il 33%.



Quanto al tempo determinato, invece, da una parte abbiamo assistito ad un aumento dei costi e dall’altra ad una forte limitazione della reiterabilità, il che rende di fatto inefficace lo strumento per tutte quelle aziende che hanno scarsa visibilità circa il proprio mercato e, dunque, la necessità di “navigare a vista” per periodi di tempo anche lunghi: condizione, questa, che purtroppo in questo periodo caratterizza sempre più la situazione delle aziende italiane.
Quindi, in definitiva, quali alternative hanno oggi le aziende per appagare il loro bisogno di flessibilità reiterata nel lungo periodo? Tre sono le strade di fronte a loro: 1) rinunciare alla flessibilità, stabilizzando il lavoratore; 2) rinunciare al lavoratore scelto pur di mantenere la modalità contrattuale del tempo determinato, stipulandolo però necessariamente con un altro lavoratore; 3) se invece l’azienda vuole godere di flessibilità conservando un rapporto stabile con il lavoratore, l’unica strada è utilizzare la somministrazione. Vediamo perché e con quali vantaggi:



Prorogabilità. I contratti di somministrazione hanno già il vantaggio di poter essere prorogati più volte del tempo determinato, a causa dell’estensione dei tempi a 60/90 giorni prima di poter far ripartire un nuovo contratto a tempo determinato (pausa temporale che invece non riguarda la somministrazione). Inoltre la somministrazione mantiene sia la prorogabilità per 5/6 volte sia la possibilità di un’agile riattivazione di un nuovo contratto.

Semplificazione delle procedure contrattuali. Non solo da oggi sarà possibile non indicare più una precisa causale nel primo contratto di somministrazione (come avviene anche per il tempo determinato), ma in caso di utilizzo della somministrazione si apre anche la possibilità di attivare contratti senza causale con lavoratori cosiddetti “svantaggiati” e tutte le volte che si sia raggiunto un accordo di secondo livello.



Continuità nel tempo. L’unica possibilità per mantenere in condizioni di flessibilità un lavoratore oltre i 36 mesi resta il contratto di somministrazione: certamente attraverso l’utilizzo del contratto di somministrazione a tempo indeterminato e, molto probabilmente (resta ancora da chiarire nei dettagli), anche con la somministrazione a tempo determinato a fronte di una assunzione a tempo indeterminato del lavoratore da parte delle Agenzie per il lavoro. Situazione – questa – che trasforma l’agenzia stessa in un vero e proprio “ammortizzatore attivo”, realizzando pienamente il concetto di flexicurity.

Costi. La somministrazione, infine, è l’unico contratto flessibile il cui costo non viene aggravato, laddove invece il tempo determinato risulta più costoso.

Dunque – come emerge da quanto detto – la Riforma, seppur senza eccessivi squilli di tromba al riguardo, ha di fatto stabilito che lo strumento più adeguato per la gestione della flessibilità in entrata è la somministrazione. Certo che sarebbe auspicabile rendere più evidente – con piccole ulteriori modifiche – questo orientamento, agevolando un cambiamento di imprese e persone, oltre alla diffusione dello strumento. In questo senso l’incomputabilità, nei 36 mesi previsti per la stabilizzazione in capo al datore di lavoro, di tutti i lavoratori assunti a tempo indeterminato da parte della Agenzie per il Lavoro e l’abolizione tout court della causale per tutti i contratti in regime di somministrazione rappresenterebbero altrettanti provvedimenti a costo zero, utili a dare messaggi chiari e forti a tutti gli attori in gioco.
In un momento di incertezza come l’attuale diventa infatti fondamentale che i messaggi veicolati siano semplici e decisi, per favorire il cambiamento ove necessario.
Il sistema ha bisogno di flessibilità e di sicurezza: per questo tali orientamenti nella direzione di una incentivazione sia normativa che economica, in grado di contribuire ad educare tutte le parti in gioco a favore di una flessibilità sana, risultano necessari tanto per le imprese che per ciascun lavoratore.

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