Recentemente, anche su queste pagine, ho avuto modo di ritrovare taluni interrogativi che spesso animano il dibattito sulle vicende del lavoro nel nostro Paese. Parlo di interrogativi in quanto un atteggiamento di onestà intellettuale, oltre che di buon senso, dovrebbe consigliare un approccio teso a osservare la realtà, cercando di scoprire i diversi elementi e fattori che condizionano la questione lavoro, cuore della questione sociale. Una attenta osservazione non può che far emergere problemi, domande e richieste di approfondimento, prima ancora che la riproposizione di ricette astratte, quasi sempre fondate sulla questione delle regole.
Il mondo sindacale, in particolare, essendo proiezione e nel contempo rappresentante (seppur parziale) dei diversi mondi del lavoro presenti nel nostro Paese, appare tuttavia diviso nelle proprie valutazioni, figlie di analisi che, spesso, sono viziate dalle preoccupazioni di natura politico-organizzativa interne, in rapporto ai propri assetti di potere dei gruppi dirigenti e alla necessità di mantenere dinamiche e dialettiche entro i limiti dei propri recinti. La perenne diatriba tra la Fiom (e i sindacati che essa è in grado di condizionare) e la Cgil dimostra che posizionamenti, decisioni e iniziative sono assunti in funzione delle questioni interne, più che come effetto di una aderenza alle dinamiche reali. E la questione, con tutti i distinguo del caso, degli interessi in gioco e dei “pesi” politico-organizzativi, riguarda tutte le grandi organizzazioni, comprese quelle che rappresentano i datori di lavoro (come l’elezione di Giorgio Squinzi in Confindustria ci ha dimostrato).
E invece avremmo bisogno di rappresentanze del lavoro che sappiano indicare percorsi virtuosi, strade da intraprendere, patti duraturi nel tempo, sperimentazioni coraggiose da monitorare: un mix di strumenti e di dinamiche contrattuali che impegnino le rappresentanze in comportamenti tesi a suscitare e sostenere investimenti, imprenditorialità diffusa, voglia di intraprendere, pari dignità tra competitività delle imprese e occupabilità delle persone, attenuazione della spesa corrente e incremento della spesa in conto capitale (infrastrutture e grandi opere pubbliche). Cosa intendiamo con tutto ciò?
Probabilmente risulta comodo e politicamente corretto continuare a parlare di flessibilità in entrata e flessibilità in uscita, ma di fronte a questioni più rilevanti non possiamo mettere la testa sotto la sabbia. La vicenda dell’acciaieria di Taranto, piuttosto che il polo energivoro del Sulcis Iglesiente in Sardegna, accanto alle filiere produttive dei diversi distretti (dal made in Italy alla componentistica auto), non da ultimo il binomio edilizia-arredo: potremmo continuare in questo elenco, ma alla fine scopriremmo che la questione non riguarda le regole ma la continuità o l’esistenza dei soggetti imprenditoriali disposti a scommettere sui fattori produttivi presenti e in divenire.
E se i soggetti imprenditoriali si dovessero intravedere, come strada alternativa nei casi di dismissioni annunciate, che cosa farebbero le Istituzioni, private e pubbliche, per sostenere tali volontà di intraprendere? Quale ruolo e responsabilità si assumerebbero le istituzioni del credito? Quali innovazioni e deroghe (da richiedere con forza alle istanze superiori) sarebbero disposti ad assumersi gli Enti Locali, al fine di agevolare e velocizzare le procedure amministrative e autorizzative? Quali patti in deroga (temporanei, limitati e definiti nelle singole aree economiche e normative) sarebbero disposti ad assumersi le Parti Sociali territorialmente competenti? Alle domande occorrono risposte, che competono a coloro che si forgiano il diritto di essere classi dirigenti, allargate e a tutti i livelli.
Dai diversi punti di osservazione emerge un 2013 carico di incertezze e forse di ulteriori aggravamenti della dinamica del lavoro; questo è ciò che appare cercando di indagare, in questi primi giorni dell’anno, le realtà dove le attività produttive risultano essere ancora i motori dell’economia. Dalle campagne elettorali dei prossimi giorni, quelle per le elezioni politiche e quelle per le elezioni nelle regioni dove si vota, vorremmo sentire qualche parola di maggiore responsabilità verso la questione sociale e del lavoro, consapevoli che alla politica si chiede (come al resto delle classi dirigenti, comprese quelle accademiche) di dare risposte credibili e realistiche e non solo appelli morali (che forse competono ad altre “agenzie”).