Termine fortunato “agenda”: dopo che il presidente Monti lo ha scelto e introdotto nel lessico politico per riassumere le sue priorità, è stato fatto proprio da attori diversi e adottato per condensare le più svariate istanze da proporre in vista della scadenza elettorale. E così, dopo l’agenda Monti, abbiamo sentito parlare di un’agenda delle imprese, di un’agenda dei cattolici, di un’agenda “verde”.
Tra le parti in causa non potevano certo mancare le donne, esplicitamente evocate dallo stesso Monti nella risposta alla domanda sulle sfide principali che attendono il prossimo Governo. Con un editoriale “pesante”, Alberto Alesina e Francesco Giavazzi hanno rilanciato il tema, ricordando gli sconfortanti dati del nostro Paese sulla partecipazione femminile al mercato del lavoro, sul divario retributivo e di carriera tra donne e uomini, ma anche sul basso tasso di fertilità delle italiane e sullo squilibrio relativo al tempo dedicato alla cura domestica tra i due sessi.
C’è stato chi ha sviluppato questo punto di attenzione primario per l’azione governativa, ricavandone una vera “agenda delle donne”. O meglio, un’agenda delle donne per le donne. Ma di quali donne si parla? A scorrere i nomi di chi avanza le proposte, si scorgono quelli di insigni ricercatrici, docenti universitarie e imprenditrici, da tempo impegnate sul fronte delle pari opportunità.
Il dubbio che le loro proposte corrispondano alle reali richieste della massa delle donne italiane, tuttavia, è almeno lecito: soprattutto di fronte a ipotesi controverse, come quella di introdurre quote di genere (sulle quali i pareri dei sostenitori si confrontano tuttora con quelli discordanti dei detrattori, che le ritengono una corruzione della meritocrazia) a tutti i livelli; o quella di introdurre il tempo pieno nelle scuole di ogni ordine e grado, salvo spacciare una misura di schietto work-life balance come un utile investimento in formazione (anche a volerlo credere, si dovrebbe ammettere che i bambini e poi i ragazzi possano essere educati solo dalla scuola, e non anche dal contesto familiare e sociale).
Su simili temi, l’indiscussa competenza e autorevolezza delle studiose e delle manager non può tuttavia obliterare la libertà di scelta di tutte le altre donne. A questo dubbio se ne aggiunge un altro, più radicale. L’operazione di racchiudere le proposte per il welfare in una formula come quella dell’“agenda delle donne” è senz’altro mediaticamente efficace. Ma alla prova dei fatti, la realtà di un’“agenda” condivisa tra i generi, e pensate non solo per le donne, ma anche per i loro figli e in generale per la famiglia, potrebbe rivelarsi più efficace.
Ad esempio, questa prospettiva consentirebbe di portare in primo piano misure come quelle in favore della flessibilità dei tempi e dei luoghi del lavoro dipendente, che non riguardano certo solo le lavoratrici donne; o come la revisione in senso più elastico delle norme sui congedi parentali (come la fruibilità oraria dei congedi, introdotta di recente, che più di tanti obblighi facilmente aggirabili potrebbe avvicinare i padri all’accudimento dei figli e permettere loro di avvicendarsi alle madri in questo compito).
Concepire un’agenda per il Paese come frutto della cooperazione di donne e uomini, invece che dell’iniziativa delle sole donne, e all’insegna della famiglia, invece che dei soli individui: questo sì che rappresenterebbe un vero passo in avanti, non solo in vista dei risultati specifici da conseguire, ma nell’ottica della maturazione generale del dibattito politico.