Sale da 30 a 40mila il tetto massimo di reddito per avere accesso alla detassazione del salario di produttività. Resta, invece, al 10% l’aliquota agevolata, così come resta inviariata la quota massima dei premi e degli incentivi sui quali può essere applicata (non più di 2.500 euro lordi l’anno). Il presidente del Consiglio, Mario Monti, ha firmato il decreto per l’incremento della produttività, figlio dell’intesa siglata due mesi fa, con non poche difficoltà, dalle Parti sociali, a eccezione della Cgil. Complessivamente sono stati stanziati 950 milioni di euro nel 2013 e 400 milioni di euro nel 2014. Basterà a rilanciare la nostra produttività? Una domanda che ilsussidiario.net ha girato al professor Maurizio Del Conte, Docente di Diritto del Lavoro all’Università Bocconi di Milano.
Cosa ne pensa di questo decreto? Servirà a rilanciare la produttività?
È un piccolo primo passo che da solo non ha certamente la possibilità di incidere così significativamente sul problema della produttività nel nostro Paese, che è sopratutto legato alla politica industriale.
Cosa sarebbe necessario allora fare?
Quello di cui abbiamo bisogno è certamente una nuova contrattazione collettiva incentivata, che si sposti dal livello centrale alla periferia, soprattutto premiando gli incrementi di produttività: per questo è fondamentale liberare delle risorse con il meccanismo della detassazione dei salari di produttività che, secondo me, a regime dovrà essere ulteriormente favorita. Ma quello che veramente serve al nostro sistema produttivo è una riqualificazione dei settori produttivi per poter competere con le economie a noi più vicine, più omogenee come quella tedesca o americana.
In che modo?
È essenziale che si creino quelle condizioni per le quali, grazie a un aumento degli investimenti in ricerca e sviluppo, in capitale umano e una politica fiscale che favorisca gli insediamenti produttivi ad alta tecnologia, si possa finalmente spostare il nostro manifatturiero verso attività ad alto valore aggiunto e anche tutto il settore dei servizi avanzati, che ha fatto la fortuna di altri paesi europei negli ultimi 20 anni, deve essere valorizzato. Per farlo è necessario ripartire con politiche legate alla formazione scolastica e quindi poi creare una filiera che dalla scuola fino all’università e poi all’impresa generi un percorso attrattivo per chi vuole investire in produzioni di alto valore aggiunto.
Secondo lei, il nuovo Governo come potrebbe affrontare la problematica legata alla produttività?
Il nuovo Governo si troverà di fronte a una serie di grossi problemi sul piano della produttività che dipendono da un ventennio di decrescita produttiva. La manovra che va sicuramente sostenuta anche per il futuro è quello di incentivare la contrattazione collettiva di prossimità.
Com’è possibile farlo?
Facendo una legge che riconosca al contratto collettivo di secondo livello la non contestabilità una volta che è stato firmato dalle associazioni sindacali più rappresentative, in modo che non si abbiano più vicende come il caso Fiat, dove si è visto che il perno della contrattazione collettiva rimane ancorato su quello nazionale, invece di incentivare una contrattazione aziendale.
Il Governo dovrà affrontare anche il problema della disoccupazione giovanile, che continua a crescere mese dopo mese.
Ci sono tantissimi giovani che hanno ormai alle spalle 4 o 5 anni di disoccupazione: quand’anche ci fosse una ripresa rischiano di essere tagliati fuori dal giro di nuove assunzioni che ripartiranno da quelli più giovani di loro. Ci ritroveremo di fronte al grandissimo problema della gestione di questo stock di disoccupati rispetto ai quali sarà necessario adottare delle politiche straordinarie di ricolloccazione. Il Governo deve fare delle scelte chiare su investimenti, informazione e ricollocazione dei lavoratori, chiarendo quali sono le funzioni dei soggetti pubblici e privati coinvolti nelle operazioni di matching tra domanda e offerta del lavoro. Sarà necessario che il Governo dia più spazio ai soggetti privati, alle Agenzie per il lavoro che operano sul mercato perchè si sono dimostrate più efficienti degli uffici pubblici di collocamento, a cui secondo me dovrebbe spettare una funzione di mero controllo. Riordinare tutti i servizi per l’impiego sarà un’operazione assolutamente strategica per rilanciare la nostra occupazione.
Lei prima parlava di contrattazione, non le sembra che dopo le difficoltà per trovare un’accordo tra Governo e Parti sociali, ci sia stato tanto rumore per nulla?
Credo che il limite di questo Governo sia soprattuto lo scarso orizzonte temporale che aveva: tutto ciò che è stato fatto ha avuto dei risultati molto piccoli rispetto alle ambizioni perchè non c’era la possibilità di organizzare delle vere e grandi riforme e quelle che sono state fatte in quest’ultimo anno sono da rivisitare. Quello che è stato fatto in questo anno, a conti fatti, non ha smosso il nostro mercato del lavoro come ci si poteva auspicare. Del resto, non si può pensare che con un decreto si possa cambiare il mercato del lavoro.
In un periodo come questo in cui le aziende tendono a far lavorare sempre meno i propri dipendenti quanto potrebbe essere utilizzato questo decreto?
In un periodo di recessione come questo è chiaro che tutti gli strumenti ordinari mordono poco. Io sostengo da tempo che in questo anno più che fare una riforma generalista del mercato del lavoro bisognava mettere in azione degli strumenti specifici straordinari, ma di fortissimo impatto per alcune categorie di inefficienza del nostro mercato di lavoro.
Quali tipi di strumenti?
Primo tra tutti si sarebbe dovuto fare un provvedimento di sgravio contributivo radicale sull’assunzione dei giovani: questo non è stato fatto per dare spazio alla riforma generalista che potrebbe avere i suoi effetti solo in periodi di normalità congiunturale e non in un periodo come questo. Penso che bisogna finanziare sgravi significativi del costo del lavoro perchè in una situazione di emergenza come questa bisogna intervenire con manovre shock che siano in grado di produrre un’inversione di tendenza, soprattutto nella disoccupazione. Nessuna azienda oggi può permettersi di aumentare il proprio personale con i costi del lavoro attuali senza una ragionevole prospettiva di crescita e allora per far ripartire la prospettiva di crescita bisogna agire sulla leva dei costi e per questo non c’è che ridurre il cuneo fiscale contributivo.
(Elena Pescucci)