“Ormai siamo davvero all’anno zero del welfare pubblico con un continuo taglio di risorse che sta privando dei servizi di assistenza le fasce più deboli del Paese, che in questo modo sono state letteralmente abbandonate al proprio destino”. Lo ha dichiarato Carla Cantone, a capo di Spi-Cgil, il principale sindacato dei pensionati in Italia. Ilsussidiario.net ha intervistato Alberto Brambilla, esperto di previdenza ed ex sottosegretario al Welfare dal 2001 al 2005.



Brambilla, che cosa ne pensa dell’allarme lanciato dalla Cgil?

Gli ultimi dati disponibili, quelli del 2010, documentano una spesa complessiva per le pensioni pari a oltre 243 miliardi di euro, cui si aggiungono 22 miliardi di pensioni sociali, assegni sociali, invalidità, accompagnamento e pensioni di guerra. Il disavanzo tra i contributi incassati e le prestazioni pagate è sui 19-20 miliardi per la previdenza e 33 miliardi per la Gestione interventi assistenziali (Gias). Se anche, come denuncia Spi-Cgil, il fondo destinato agli interventi di assistenza alle persone e alle famiglie fosse passato da 923,3 milioni di euro a 69,95 milioni, stiamo parlando di una piccola fetta dell’intera torta.



Per quale motivo i contributi non bastano a pagare tutte le pensioni?

Su 23 milioni di pensioni erogate ogni mese, il 46% sono assistite dallo Stato attraverso le maggiorazioni sociali, gli assegni sociali e le pensioni minime. Ciascuno di questi trattamenti è a carico della fiscalità. Noi parliamo spesso di disuguaglianze, ma i numeri sono molto duri. E’ fisiologico che ci sia un 3-5% di persone sfortunate, che sono state male, non hanno potuto lavorare o hanno avuto una vita un po’ particolare. Ma in Italia abbiamo 7 milioni di pensionati che hanno ottenuto l’integrazione a carico dello Stato perché non hanno neanche messo assieme 15 anni utili di contributi. Bisogna quindi andare a vedere anche i numeri, perché se parliamo solo a titolo teorico di disuguaglianze sociali e iniquità, possiamo essere d’accordo, ma poi i conti non tornano.



Qual è il deficit annuo complessivo dell’Inps?

Ogni anno per le politiche sociali l’Inps deve chiedere allo Stato 65-66 miliardi di euro che non sono coperti dai contributi dei lavoratori. Nel 2010, per esempio, sono stati pagati 198 miliardi di euro di contributi, mentre la spesa è stata superiore ai 260 miliardi di euro. Il nostro Paese può permettersi ancora di aumentare le tasse per ripianare questi debiti? Se ogni anno le pensioni pesano per 60 miliardi di euro aggiuntivi sulla fiscalità generale, poi non possiamo lamentarci perché le imposte sono troppo alte. Purtroppo sono numerosi i cittadini che non pagano le tasse, e poi a 65 anni chiedono la pensione. Vorrei che Spi-Cgil ragionasse anche su questi dati e, soprattutto, che ci dicesse dove dobbiamo aumentare le tasse.

Ma si può davvero vivere con 440 euro di pensione?

Il problema è che gli assegni di accompagnamento sono 2,2 milioni, e quindi non è possibile erogare una cifra più elevata di quei 440 euro. Se fossero meno numerosi, si potrebbe offrire una risposta più sostanziosa agli anziani che sono stati indigenti per tutta la vita. Allo stesso modo, ciò si renderebbe possibile se tutti versassero i contributi. Dobbiamo invece prendere atto che gli italiani, appena possono, evitano di pagare le tasse. Nessuno dice che sia giusto erogare una pensione di soli 440 euro al mese, con la quale forse può vivere chi ha la casa, abita in campagna, ha l’orto e gli animali, ma non certo chi deve pagare l’affitto in città. Ma nel contesto complessivo, il problema è dove andare a prendere delle cifre aggiuntive.

 

Infine, che cosa ne pensa dei contributi di solidarietà applicati alle pensioni?

 

Sono contrario ai contributi di solidarietà perché “sparano nel mucchio”, cioè colpiscono sia chi ha meritato la sua pensione lavorando e pagando le tasse per tutta la vita, sia chi approfittandosi dei meccanismi previsti dalla pensione retributiva è riuscito a fare il furbo. Pur non essendo una misura giusta, togliere il 5% dalla pensione non rivalutandola può essere accettabile, soprattutto in situazioni di emergenza. Ciò che è da evitare è invece la cosiddetta deindicizzazione, che consiste nell’eliminare definitivamente la percentuale legata all’inflazione facendola perdere al contribuente anche per gli anni successivi.

 

(Pietro Vernizzi)