La legge Biagi c’entra poco con i problemi pensionistici del sistema previdenziale. È una legge di lotta al precariato che non favorisce carriere discontinue. E, soprattutto, Marco Biagi non pensava di inflazionare il costo contributivo sul lavoro per favorire l’incontro tra domanda e offerta di lavoro. Scrivo questo riferendomi all’intervista a Nicola Salerno sulla riforma delle pensioni pubblicata su queste pagine, in cui si discute il problema della “adeguatezza” degli assegni pensionistici dei lavoratori cosiddetti atipici. Nel suggerire una proposta per la risoluzione del problema se ne ricercano le cause e, senza giri di parole, si punta il dito quasi esclusivamente contro la “legge Biagi”, accusandola di aver inventato la precarietà occupazionale e, di conseguenza, anche il problema previdenziale.



Si afferma infatti: è «con l’introduzione della legge Biagi che un numero ingente di persone hanno lavorato in modo discontinuo e precario»; e inoltre: «La legge Biagi ha introdotto delle figure professionali che hanno avuto una carriera frammentata, discontinua, che sono entrate tardi sul mercato del lavoro e hanno lavorato per la maggior parte con contratti non da lavoro dipendente». Infine, viene spiegato il “perché” di tanta precarietà: «Il motivo per cui Marco Biagi pensò di introdurre queste figure atipiche era quello di attivare, a lato del lavoro normale, un canale d’ingresso assoggettato a oneri contributivi più bassi e quindi con un più facile incontro tra domanda e offerta».



Questa lettura degli effetti della legge Biagi è fuorviante. Non si esclude che la legge Biagi abbia qualche sua responsabilità sulle criticità del nostro mercato del lavoro; tuttavia è del tutto infondata l’accusa che la vuole promotrice di “figure professionali che hanno avuto carriere frammentarie e discontinue” o di essere stata causa per “un numero ingente di persone” di un lavoro “discontinuo o precario”. La legge Biagi infatti non ha introdotto alcuna nuova figura professionale, fatta eccezione per il lavoro accessorio, che tuttavia non ha mai aspirato a diventare una normale e ordinaria forma di occupazione. Essa si è limitata a “disciplinare” quei rapporti di lavoro che fino ad allora non avevano dei propri riferimenti normativi o li avevano scarsamente. Così è stato, ad esempio, per il lavoro ripartito e per il part-time; per l’apprendistato e per il contratto d’inserimento che sostituiva il Cfl, il Contratto di formazione e lavoro.



Così è stato per il più famigerato “lavoro a progetto”, che prima della legge Biagi non era neppure un rapporto di lavoro essendo disciplinato da una norma fiscale, quindi senza alcuna regolamentazione tra datore di lavoro (detto propriamente committente) e collaboratore. In definitiva, dunque, se un apporto ha dato la legge Biagi al mercato del lavoro, è stato quello di contrastare il precariato (non favorirlo), attraverso la previsione di una disciplina per quei rapporti che fino ad allora erano sconosciuti perché relegati nel buio del sommerso e del lavoro nero.

Altrettanto fuorviante è l’equazione “legge Biagi uguale pensiero di Marco Biagi”, perché la legge Biagi non è la legge “di” Marco Biagi: ha tratto senz’altro ispirazione dal Professore bolognese, ma è stata scritta da altre mani. Sotto questo aspetto, peraltro, la legge appare incompiuta rispetto alla proposta di Marco Biagi, perché non ha avuto la forza necessaria per eseguire in pieno l’operazione di riforma immaginata da Biagi. E qui si arriva al capolinea, alle idee di Marco Biagi. È vero che il professore assassinato dalle Brigate Rosse vedeva nella riduzione del costo del lavoro la leva su cui agire per favorire le assunzioni, ma non intendeva assolutamente farlo attraverso la riduzione delle tutele previdenziali o pensionistiche dei lavoratori, bensì mediante lo sgravio degli oneri normativi sui contratti di lavoro.

Tutto ciò, appunto, richiedeva una riforma più ampia di quella compiuta dalla legge Biagi: una riforma che coinvolgesse tutto il mercato del lavoro e tale da modernizzarlo, cioè da renderlo più adatto ai tempi moderni. Che significa(va) reinventare un diritto del lavoro non più all’esclusiva protezione del posto di lavoro (contratto subordinato), ma del lavoro in quanto tale e in quanto viatico per la realizzazione della persona. Tutto ciò rimane ancora sulla carta, senza che con altre due riforme – la Fornero dello scorso anno e il decreto lavoro di quest’anno – si siano potuti fare dei passi in avanti, a causa dell’atavica avversione ideologica e sindacale. «Il vero terreno di scontro», scriveva Marco Biagi, «è quello riguardante un progetto di riforma dell’intera materia, da un lato, e la difesa strenua dell’impianto attuale, dall’altro», vale a dire «modernizzazione o conservazione?». L’interrogativo, ancora oggi valido, fa da titolo all’ultimo articolo del Professore bolognese.