«Esigere il raggiungimento dei 67 anni d’età per andare in pensione a prescindere dall’anzianità contributiva è un’iniquità che andrebbe corretta. Di fatto chi ha iniziato a lavorare quando era molto giovane si trova a essere penalizzato rispetto a chi in tutta la sua vita ha pagato solo 20 anni di contributi, ma ha diritto allo stesso trattamento». Ad affermarlo è Alberto Brambilla, esperto di previdenza ed ex sottosegretario al Welfare dal 2001 al 2005. Una presa di posizione in parte diversa da quella del ministro del Lavoro, Enrico Giovannini, secondo cui ulteriori modifiche della legge Fornero sarebbero “incompatibili con il percorso attuale di contenimento della spesa pubblica e con l’indirizzo del governo che ha fissato come priorità la riduzione del costo del lavoro”.
Brambilla, in che cosa non è d’accordo con quanto affermato dal ministro?
Nella legge Fornero sulle pensioni ci sono alcuni punti specifici che andrebbero rivisti. Va risolto il problema degli esodati, ma soprattutto occorre intervenire sull’indicizzazione dell’anzianità contributiva rispetto alla speranza di vita. Di fatto con la riforma si consente a chi ha 67 anni di andare in pensione con 20 anni di contributi, mentre chi ha 62 anni e 41 anni di contributi è costretto a lavorare altri due anni per arrivare a 43 di contributi. Non c’è nessun Paese europeo nel quale ai lavoratori siano imposti più di 41 anni di servizio. Ma ciò si lega a un altro discorso, quello della penalizzazione dei cosiddetti “precoci”.
A che cosa si riferisce nello specifico?
Al trattamento particolarmente rigido e severo nei confronti di chi ha iniziato a lavorare quando era molto giovane. Un cittadino con alle spalle 42 anni di contributi potrebbe fare causa, e se la questione finisse di fronte alla Consulta a quel punto la riforma Fornero sarebbe dichiarata incostituzionale. Il governo Letta deve quindi intervenire per modificare questi aspetti, in quanto a Elsa Fornero sono sfuggiti.
Il professor Gustavo Piga ha scritto su Il Sole 24 Ore che le pensioni possono aiutare la crescita. Lei che cosa ne pensa?
Sono d’accordo con lui. Le pensioni immettono ogni anno 240 miliardi nel sistema economico dando da mangiare a 16 milioni e 700mila persone. È una cifra di gran lunga superiore ai 3 milioni e 600mila degli stipendi dei dipendenti della pubblica amministrazione. Dopo le ultime riforme, il sistema pensionistico è ben gestito ed elimina tutti i comportamenti opportunistici. Il problema è che paghiamo ancora oggi il prezzo di 25 anni di follia, quelli compresi cioè tra la legge Brodolini del 1969 e la legge Amato/Dini del 1994. Il 70% del debito pubblico è provocato dal disavanzo del sistema di welfare e per altri 20 anni dovremo scontare gli errori del passato. La legge Brodolini ha prodotto tali e tanti disastri, che continueremo ancora a lungo a sentirne le conseguenze.
Come si potranno sostenere le pensioni se la crescita continuerà a mancare?
La crescita è indispensabile e per rilanciarla occorre ridurre il carico fiscale. Per farlo non serve la bacchetta magica. In Italia abbiamo mille piccoli Comuni con una media di 350 abitanti l’uno. Contiamo inoltre 20mila tra municipalizzate e partecipate nei settori di acqua, distribuzione del gas, energia, rifiuti e trasporti. Ciascuna di loro chiede soldi ai Comuni o alla pubblica amministrazione. Basterebbe tagliare metà di queste aziende pubbliche, e comunque ne resterebbe un numero stratosferico, in quanto in Francia o Spagna le società che gestiscono ciascuno di questi settori sono quattro o cinque. Scendere a quota 10mila municipalizzate sarebbe sufficiente per trovare i fondi in modo non soltanto da risolvere i problemi delle pensioni di cui parlavo prima, ma anche per ridurre il carico fiscale.
Quali altre misure introdurrebbe?
A ciò si potrebbe aggiungere l’eliminazione delle province di nuova creazione e avremmo la quadratura del cerchio. La macchina pubblica costa 360 miliardi, se non si riesce a tagliare neanche il 10% si rischia di chiudere. E l’Italia sta chiudendo per mantenere 8.101 Comuni, 120 Province, 20mila società partecipate e Regioni come il Molise che conta 360mila abitanti, tutti impieganti nella pubblica amministrazione.
Anche il welfare integrativo può essere utilizzato per il rilancio dell’economia?
Il governo Letta eroga in media 100 euro l’anno per 5 milioni di lavoratori. Se si usasse invece in modo intelligente il welfare integrativo, si erogherebbero 250 euro netti al mese nella busta paga di ciascun dipendente. Significherebbe mettere 30 miliardi in circolazione senza eccessive spese per lo Stato.
(Pietro Vernizzi)