Un mondo, quello del lavoro, che apparentemente cambia, ma che in realtà va sempre più indietro. Per Luca Casarini, volto noto dell’allora movimento No Global, il lavoratore autonomo, quello che ha la partita Iva, è il corrispondente dell’operaio dell’Ottocento che aveva zero diritti e veniva tartassato e sfruttato. «Mi fanno ridere quelli che mi dicono: hai aperto la partita Iva, sei un imprenditore», dice a ilsussidiario.net. «Il lavoro autonomo è tendenzialmente quello dove si organizza tutto il lavoro del futuro, ma siccome non ha rappresentanza politica e sindacale viene massacrato, ancora di più del lavoro dipendente. Il lavoratore autonomo di seconda generazione è il nuovo operaio, ecco la verità». Snocciola cifre e dati: chi guadagna 50mila euro all’anno rimane con 20mila euro in tasca; chi arriva a 90mila se ne vede portare via più del 66%; chi apre la partita Iva e a fatica arriva a 10mila euro, paga il 32% sul netto del guadagno. Le colpe di tutto questo? Essenzialmente della sinistra.



Casarini, lei da tempo sta portando avanti una battaglia in difesa del lavoro autonomo. Quali sono i punti principali di questa battaglia?

Bisogna partire da alcuni dati, apparentemente noti a tutti. Innanzitutto che l’Italia è vergognosamente uno dei paesi con più alta pressione fiscale sul lavoro vivo. Formalmente siamo dentro una dimensione che la Costituzione vorrebbe progressiva in termini fiscali, ma la realtà è che la pressione fiscale è altissima e penalizza i più poveri e favorisce i più ricchi. Questa, in soldoni, la realtà.



Cose che si dicono da anni, ma nel concreto cosa significa?

Bisogna anche dire che questa pressione fiscale si aggiunge al taglio del salario indiretto e colpisce gli autonomi quanto tutti gli altri lavoratori. È vero che attraverso l’imposizione fiscale il lavoro dipendente è tartassato come lo sono tutte le fasce  più deboli della società. Ma l’imposizione fiscale agisce soprattutto su coloro che hanno l’obbligatorietà della dichiarazione, tra cui chi presta servizio a progetto o a partita Iva, perché sono un costo che l’azienda deve scaricare dato che ovviamente è impossibile pensarli in nero.



Quindi?

Quindi teniamo poi conto di un secondo aspetto e avremo il quadro completo. Parlo del taglio del salario diretto attraverso il taglio dei servizi, il taglio del welfare. Il salario indiretto incide sulla vita della gente, perché se vengono tagliati i servizi minimi quali l’abitazione o la mobilità questo lo paghiamo nel senso che corrisponde a un altro prelievo non dichiarato sul reddito. Siamo allora un Paese dove sostanzialmente uno lavorando dà allo Stato il 70% di quello che guadagna, questo è inammissibile, anche perché non si traduce in migliori servizi e migliore qualità della vita anzi. La foto è quella di un Paese dove aumenta la povertà e la ricchezza si concentra nelle mani di pochi.

Per chi ha la partita Iva tutto questo cosa significa?

Verso le partite Iva, il lavoro autonomo di seconda generazione, c’è un accanimento. Questo lo si capisce, ad esempio, nell’aver mantenuta viva la riforma Fornero che è stata ancor più devastante rispetto alla situazione precedente. Il taglio del cuneo fiscale, presentato da tutti come grande priorità, è sicuramente necessario, ma per chi fa partita Iva è stato confermato un accanimento dello Stato nei confronti del lavoratore autonomo, sin dalla riforma delle pensioni. Pensiamo cosa vuol dire la gestione separata dell’Inps: vuol dire che noi autonomi non avremo mai la pensione, perché se devo calcolarla su un periodo di trent’anni, il risultato sarà irrisorio, corrisponderà alla minima vitale. Ricordiamoci di quando Mastrapasqua si raccomandò di non pubblicare le proiezioni sulle pensioni perché potevano creare allarme sociale per il lavoro autonomo.

Perché questo accanimento?

Io ho l’impressione che siccome il lavoro autonomo è tendenzialmente quello dove si organizza tutto il lavoro del futuro, e poiché non ha rappresentanza politica e sindacale, viene massacrato ancora  più delle altre forme di lavoro.

 

Lei ha detto in passato che la sinistra non ha capito la trasformazione del mondo del lavoro, e ha incentrato tutta la sua battaglia sul lavoro su chi ha il posto fisso, chi lavora in fabbrica.

La sinistra è certo ancorata a una dinamica che andava bene nel Novecento, una idea del lavoro con parole d’ordine che oggi suonano assurde, come la piena occupazione. Siamo già in piena occupazione anche se paradossalmente i disoccupati aumentano, ma questo perché la produzione si è spostata sul materiale, sul relazionale. Le città sono le vere fabbriche di questo sistema produttivo e funziona in modo diverso anche nella misurazione del lavoro. Invece la destra ha tentato inizialmente di organizzare il lavoro autonomo e poi l’ha massacrato peggio ancora.

 

In che senso?

Sono convinto che le fortune elettorali di Berlusconi sono dovute a un tentativo di riferirsi a quel mondo in alternativa a quello che non sapeva fare la sinistra. In realtà, la destra ha pensato unicamente alla grande distribuzione e ai grandi gruppi di potere economico e il lavoro autonomo è stato massacrato.

 

È questa una situazione solo italiana? Ci sono realtà all’estero dove il lavoro autonomo è maggiormente considerato?

Direi che è una situazione globale. Questi discorsi ho cominciato a sentirli a Seattle nel 1999, agli albori di quel movimento No global che ho poi frequentato per tanti anni. È ovvio che abbiamo nel mondo un mercato del lavoro articolato: guardando i dati generali i salariati sono aumentati, ma questo perché ci sono nuovi paesi in sviluppo capitalistico come lo eravamo noi nel dopoguerra, ad esempio Turchia e Brasile, per non parlare della Cina che è un mondo a parte. Ma la tendenza che viene applicata nei paesi occidentali è ridurre i salari e ridurre i lavoratori contemporanei, gli autonomi. È come se ci fosse  un meccanismo dove il lavoratore autonomo di seconda generazione è il nuovo operaio. Io che faccio partita Iva sono un operaio contemporaneo. La fabbrica sociale in cui mi trovo mi rende attaccato a una catena di montaggio mio malgrado.

 

Lei ha parlato in passato di obiezione fiscale, ricordando certe uscite della Lega: provocazione o strada da percorrere?

Il nodo delle tasse è intollerabile, attacca la vita concreta e significa impoverimento ingiusto. Io sono per la distribuzione generale della ricchezza prodotta. La tassazione è una cosa giusta che rispetta i criteri di equità e se funziona ridà ai cittadini una qualità della vita più alta. Ma se la tassazione serve ad alimentare la concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi allora non mi va bene. Io vorrei capire quali tasse pago una per una e dove vanno a finire i soldi. L’elemento del rendere sempre più incomprensibile la traiettoria delle tasse è un modo fondamentale che ha il sistema di potere per nascondere la realtà. Se uno guarda il bilancio dell’Inps scopre che è l’unico ente in attivo con 12 miliardi. E uno allora si chiede: ma come è possibile? E poi tagliano le pensioni?

 

Gia: ma come è possibile?

Perché non ci dicono dove finiscono le tasse che paghiamo. Se si sviluppasse un movimento che chiede: questa tassa dove va a finire, non sono d’accordo che vada a finire lì, sarebbe una cosa positiva. Ci sono dinamiche che hanno costruito l’idea nella storia della democrazia che avevano questo come soggetto, pensiamo al “no taxation without representation” che è stato il cardine della Costituzione americana. Dunque non bisogna evadere il fisco, ma allo stesso tempo non bisogna alimentare un sistema ingiusto.

 

In questa sua battaglia lei vede una qualche forma di rappresentanza, di corrispondenza politica nell’attuale quadro?

Siamo in deficit in termini culturali, politici e programmatici però penso che questa battaglia è difficile la possa prendere il Pd.

 

Perché?

Perché rappresenta un misto tra liberismo e 900 che ha prodotto una situazione di danno culturale, pensano ancora alle fabbriche e alla piena occupazione. L’unica formazione a sinistra dove io guardo e con cui sto discutendo e vedo che ci sono risposte culturali è Sel. Però bisogna che si traduca in atti, che nasca un grande movimento sociale attorno a questo. Ai partiti non ci credo molto, hanno una forma legata ai palazzi che per definizione è separata dalla società.

(Paolo Vites)