Quattro riforme in pochi anni, ma il sistema delle pensioni continua a dare segni di cedimento. Nonostante le dichiarazioni iniziali e il recente appello dei sindacati, il governo Letta su questo fronte ha latitato parecchio. Per Vito Moramarco, professore ordinario di Politica economica all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, il problema è che «il nostro sistema pensionistico è ancora completamente basato sul meccanismo a ripartizione e questo oggi non è più sostenibile». In più, il continuo allungamento dell’età pensionabile «ha un beneficio quasi nullo dal punto di vista della sostenibilità del sistema: se gli anziani non vanno in pensione, i giovani non inizieranno mai a lavorare. Chi paga le pensioni? I 67enni?». Quello che occorre, e di cui nessuno parla, è invece una riforma strutturale del sistema di finanziamento delle pensioni con «l’introduzione, almeno per una quota, di un sistema a capitalizzazione». Che è certamente più rischioso rispetto al sistema attuale, che tuttavia solo “apparentemente” dà maggiori certezze. Per Moramarco i fondi pensione per funzionare dovrebbero essere resi obbligatori, come accade nel resto del mondo.
Nell’agenda del governo Letta quello delle pensioni rimane uno dei temi più caldi. Finora, al di là delle dichiarazioni, non è stato fatto granché per correggere i “difetti” della riforma Fornero. Come giudica l’operato dei questo esecutivo?
Il problema è che ancora oggi il nostro sistema pensionistico è completamente basato sul meccanismo a ripartizione, dove le persone che lavorano pagano i benefici di chi è andato in pensione. Chiaramente, quando la popolazione invecchia questo sistema non è più sostenibile.
Le riforme fatte finora non sono servite?
Di riforme delle pensioni ne abbiamo viste almeno tre, se non quattro negli ultimi anni.
Di per sé, non un fatto positivo…
Erano necessarie, ma erano tutte fotocopie l’una dell’altra. Soprattutto non erano riforme strutturali: si sono limitate a guardare l’età pensionabile che nel tempo si è progressivamente innalzata. Si è passati dal sistema retributivo a quello contributivo, ma i contributi non sono finiti in un fondo. Con quel passaggio è stata introdotta una nuova modalità di computo della pensione. Non un modo di finanziare il sistema pensionistico. Quella che manca è proprio una riforma del sistema di finanziamento delle pensioni.
Come dovrebbe essere questa riforma?
Dovremmo iniziare a far diventare, almeno un po’, il nostro sistema pensionistico un sistema a capitalizzazione. Non dico di passare completamente a un sistema di questo tipo, ma bisognerà pur cominciare affinché le pensioni dipendano effettivamente da quanto uno ha versato al fondo, non solo come modalità di computo. Trattandosi di un fondo investito, mi torna il capitale e mi tornano gli interessi.
Non è rischioso?
Il rischio è che con i mercati ballerini i ritorni, in termini di benefici si riducano. Ma non è follia: la Gran Bretagna, ad esempio, ha imboccato questa strada; gli Stati Uniti in gran parte. È più rischioso, ma sta diventando estremamente rischioso anche un sistema come il nostro, in cui i pochi che lavorano pagano la pensione a quelli che ci sono già andati. Quel sistema funzionava negli anni ‘60 e ‘70, fino agli anni ‘80, quando c’era una forte crescita demografica. Dopo sono sorti problemi. In più.
In più?
Oggi è ancora più difficile sostenere un sistema del genere perché, in una fase di crisi economica come quella che stiamo attraversando, il numero dei lavoratori si è ridotto. Quindi sono sempre di meno quelli che si fanno carico dei benefici dei molti che sono andati in pensione. Per questo non si può andare avanti all’infinito con semplici allungamenti dell’età pensionabile. Nessuno parla di meccanismi o di regole di finanziamento.
Di recente i sindacati hanno scritto al premier Letta per richiamare l’attenzione del governo sulla difficile condizione dei pensionati.
È vero, e va sottolineato con forza, che ci sono persone che hanno pensioni bassissime che andrebbero tutelate. Dall’altra parte, ci sono anche i pensionati “eccellenti”.
Si riferisce alle pensioni d’oro?
Certo, da quel lato credo si possa fare molto.
Si dice che i privilegiati sarebbero talmente pochi che un eventuale taglio non inciderebbe granché. Non è così?
Non sono così pochi, come è stato detto. È chiaro che bisogna intendersi quando si parla di pensioni d’oro.
Chi sono i pensionati d’oro?
Non penso solo a quelli con livelli elevatissimi. Ci sono manager pubblici o politici che hanno pensioni cumulative molto alte magari perché hanno svolto diverse professioni. Lì bisognerebbe porre mano. Si dovrebbe fare come si fa con la progressività dei tributi. Usando sempre molta attenzione, perché è complicato stabilire dei paletti. C’è anche un altro problema.
Quale?
Continuare ad alzare l’età pensionabile ha un beneficio quasi nullo dal punto di vista della sostenibilità del sistema.
In che senso?
Qualche beneficio ovviamente c’è. Però se gli anziani non vanno in pensione, i giovani non inizieranno mai a lavorare. Oggi il tasso di disoccupazione giovanile è altissimo. Chi paga le pensioni? I 66enni e i 67enni che continuano a lavorare? Nel resto dell’Europa, in Germania, non è così.
A cosa pensa in particolare quando parla di riforma strutturale?
Penso innanzitutto che si possa introdurre, almeno per una quota, un sistema di finanziamento a capitalizzazione, non a ripartizione, delle pensioni.
I fondi pensione non sono mai decollati nel nostro Paese..
È vero. Diverso sarebbe se li si rendesse in qualche modo obbligatori.
Come funzionerebbe il nuovo meccanismo?
Solo una parte della pensione verrebbe calcolata sulla base del meccanismo attuale. Un’altra parte sarebbe necessariamente strutturata a capitalizzazione. In pratica, una persona versa a un fondo – pubblico o privato, meglio privato forse ma se ne può discutere – una parte dei propri contributi che vengono impegnati in attività finanziarie, piuttosto che reali, dipende dalla buona gestione del fondo pensioni. Tutto il mondo funziona così.
Prevede un tetto?
Si può iniziare con un 10% e salire fino a una determinata soglia, non dico fino al 100% come accade in alcuni paesi. Semplicemente perché i fondi pensione sono più rischiosi rispetto al sistema a ripartizione. Che “apparentemente” da più certezze. Dico apparentemente perché uno comincia a lavorare con delle regole, che nel tempo cambiano, poi dopo poco cambiano di nuovo.
È certezza questa?
No, neanche questa è certezza. In un sistema a capitalizzazione io verso al fondo pensioni e quello che mi ritorna dipende da quanto ho versato, da quanto a lungo ho lavorato; nella massima trasparenza posso controllare regolarmente quale sarebbe il beneficio se smettessi di lavorare domani. E poi bisogna stare attenti quando si fanno le riforme: abbiamo visto che possono anche capitare degli “incidenti” come quello degli esodati della riforma Fornero che creano situazioni di grave difficoltà.