I discorsi pronunciati mercoledì dal Premier Letta davanti a senatori e deputati non saranno certo ricordati per i contenuti programmatici e l’analisi dell’azione di Governo. C’era ben altro in gioco, come si è visto. Ciononostante, passato lo shock di emozioni per gli inaspettati risvolti politici della giornata, non è inopportuno rileggere con attenzione tutte le parole pronunciate dal primo ministro, anche in merito a quanto il Governo ha fatto e a quanto ha in previsione di fare.



L’argomento prevalente è certamente stato la ripresa economica e occupazionale. È indubbio che la stabilità politica comporti maggiori possibilità di crescita e solidità interna (per approvare le tante riforme attese, ancora ferme nei programmi elettorali) ed esterna (necessaria per non riaprire il fronte dell’offensiva dei mercati al nostro debito pubblico). Molte parole sono state spese in merito alle politiche del lavoro. D’altra parte è proprio di questi giorni l’ennesimo segnale di allarme statistico sulla disoccupazione, in particolare giovanile, questa volta lanciato dal tradizionale rapporto annuale del Cnel. Enrico Letta non ha evitato l’argomento e ha un poco chiarito come intende muoversi il suo Governo.



Tralasciando ora il commento sul riassunto delle politiche attuate in circa 150 giorni, sintetizzate dal premier in qualche dato che sarebbe stato bene spiegare un poco meglio (4 miliardi spesi per lavoro, cassa integrazione e ammortizzatori sociali; 5.500 posti di lavoro creati in un giorno grazie al Clic Day connesso agli incentivi contenuti nel Pacchetto Lavoro approvato in estate; 800 milioni destinati alla maggiore occupazione), è interessante leggere, sparso tra le dichiarazioni della mattina e del pomeriggio, il programma a breve termine in materia di lavoro.

I contenuti: «Riduzione del carico fiscale sul costo del lavoro in entrambe le componenti, quella a carico del datore di lavoro e quella a carico del lavoratore. Dunque: più soldi in busta paga per il dipendente, più margini di competitività per le imprese, riattivazione della domanda interna. Più incentivi all’assunzione dei lavoratori a tempo indeterminato (…)»; «certezza delle regole (…) con un Testo unico sulla normativa del lavoro»; «potenziare sotto il profilo quantitativo e qualitativo gli strumenti di sostegno alle fasce deboli della popolazione: i centri per l’impiego (…)»; «nel Sud vincere la grande battaglia contro la dispersione scolastica»; «attuazione della Garanzia giovani a partire da gennaio»; «lavorare per aiutare i contratti a tempo indeterminato e per battere la precarietà, che rappresenta sicuramente oggi il grande problema del nostro Paese»; «Expo 2015 è dietro l’angolo, guai a considerarlo soltanto un evento: è la scossa di fiducia con cui ci scrolleremo di dosso una volta per tutte quella cappa di autolesionismo e minimalismo che troppo spesso ha accolto le nostre paure».



Un programma di tutto rispetto, certamente. Intenzioni ampliamente condivisibili e che non ci si può che augurare di vedere realizzate. Sintomatiche, però, della confusione di questo Governo in materia di lavoro. Come hanno dimostrato i decreti “del Fare”, “Lavoro”, “Precari Pa” e “Scuola”, quel che manca a questo Governo non sono le buone intenzioni, ma una strategia complessiva di fondo. Il periodo legislativamente guidato da Pacchetto Treu e Legge Biagi (1997-2011) è stato contraddistinto dal tentativo di difendere il lavoratore in un mercato del lavoro estremamente diverso da quello dell’era legislativa precedente (anni Settanta e Ottanta), proteggendolo nella precarietà insita nel progresso economico, più che dalla precarietà dei contratti.

È stato uno dei periodi più fecondi di riforme per il diritto del lavoro. Certo con qualche squilibrio, ma, dati alla mano, capace di facilitare la creazione di milioni di posti di lavoro, con contestuale abbassamento dei tassi di disoccupazione. La Riforma Fornero (2012-2013), con straordinaria intempestività, ha provato a correggere gli eccessi di flessibilità ereditati dal primo decennio del Duemila incentivando migliore occupazione a scapito della maggiore occupazione. Un tentativo che è ancora prematuro giudicare nella sua completezza, ma che è evidente non essere stato in nessun modo d’aiuto nel contrasto alla disoccupazione galoppante che osserviamo dal 2008. Peccando di visione fordista, si è tornati a credere di potere difendere il lavoratore dalla precarietà, come se questa fosse esito della legge, variabile indipendente dell’economia. Diverse visioni, soluzioni opposte.

L’attuale Governo ha ereditato certamente una situazione difficile. Le crisi hanno il vantaggio di rendere molto facile l’individuazione dell’obiettivo (il superamento della crisi stessa), ma lo svantaggio di annebbiare la strada per raggiungerlo. Incentivi all’occupazione, facilitazione del contratto a tempo determinato, semplificazione burocratica in materia di salute e sicurezza, riforma dei centri per l’impiego… Sono tutte misure importanti, ma che hanno bisogno di una visione chiara per non essere contradditorie. Come possono stare insieme l’affermazione della prevalenza del contratto a tempo indeterminato con i contratti sperimentali accennati in Destinazione Italia e abbozzati nelle norme speciali per Expo? Come si coniuga il superamento della acausalità per il tempo determinato con il mancato intervento sulla flessibilità cosiddetta in uscita?

Come non contraddire l’importanza sussidiaria dell’operatore privato nel mercato del lavoro con un Piano Giovani tutto giocato sui Centri per l’impiego pubblici? Come conciliare le parole forti sulla dispersione scolastica con un Decreto scuola che nulla contiene (e probabilmente nulla conterrà dopo la conversione in legge) su alternanza e formazione professionale? Come giustificare l’ambizioso progetto di un ichiniano Testo unico sul lavoro con la più volte declamata tecnica “del cacciavite”?

Meglio poche idee, ma chiare, che tante proposte confuse. Tanto più in un periodo dove lavoratori e imprese chiedono essenzialmente certezza. Il primo programma del Governo Letta in materia di lavoro potrebbe essere proprio questo: chiarire dove vuole andare e poi, certo della strada da percorrere, chiedere a imprese, lavoratori e parti sociali di camminare con lui.

 

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