Si sa ancora poco del reddito di cittadinanza minimo garantito approvato dal Senato, ma, di sicuro, non c’è da farsi illusioni. Il provvedimento, contenuto nel maxiemendamento presentato dal governo nell’ambito della legge di stabilità, prevede l’erogazione del sussidio, in via sperimentale, nelle grandi città. La dotazione complessiva ammonta a 120 milioni di euro in tre anni, 40 milioni all’anno. Poco e niente, quindi. Per arrivare a questa cifra, si è deciso di intervenire sulle pensioni eccedenti i 90mila euro annui, applicando un’aliquota progressiva aggiuntiva compresa tra il 6% e il 18%. Non sarebbe stato meglio usare quel prelievo per dare respiro ai pensionati con gli assegni più bassi? Lo abbiamo chiesto a Sergio Cofferati, ex segretario generale della Cgil ed europarlamentare del Pd.



Cosa ne pensa della misura introdotta dal Senato?

Lo strumento, di per sè, è indubbiamente utile. Peraltro, l’Italia è uno dei pochissimi paesi europei, assieme  a Grecia e Ungheria, a non averlo. Abbiamo bisogno di una politica di contrasto alla povertà e un provvedimento di questa natura è coerente con l’obiettivio. Tuttavia, dispone chiaramente di una dotazione poco più che simbolica, e questo è un bel problema. Già il governo Prodi aveva introdotto una sperimentazione del genere, ma non aveva retto neanch’essa perché, se le risorse disponibili sono scarse, uno strumento impegnativo come questo è difficile da gestire. Andrebbe adeguatamente rafforzato.



Come?

Credo che ci fossero i margini per ampliarlo recuperando risorse altrove. Preferibilmente, introducendo un’aliquota aggiuntiva sui redditi alti. 

Quanto alti?

Orientativamente, superiori ai 150mila euro annui. Va anche detto che si sarebbe dovuto preservare un principio di solidarietà intra-categoriale, ovvero da parte dei lavoratori benestanti nei confronti di quelli più poveri o dei poveri in assoluto, e da parte dei pensionati “ricchi” nei confronti dei pensionati poveri.

Quindi, l’intervento sulle pensioni d’oro avrebbe dovuto sortire altri effetti?

Si sarebbe dovuto mantenere quell’emendamento che prevedeva l’utilizzo del contributo di solidarietà sulle pensioni alte per sbloccare la rivalutazione dell’indicizzazione all’inflazione di quelle medio-basse. Il redito minimo andava finanziato con un prelievo sui redditi alti, quindi, non con quello sulle pensioni d’oro. 



 

In ogni caso, il provvedimento rappresenta una concessione al Movimento 5 Stelle o era nelle corde del governo?

Di sicuro, non era nelle ipotesi del governo. Non escludo che sia nato dal dibattito in parlamento. Non so dirle tuttavia, se sia sorto nel tentativo di costruire un rapporto, seppur minimo, con i 5 Stelle.

 

Non crede che il reddito minimo rappresenti il classico provvedimento a pioggia? Non sarebbe stato meglio usare le stesse risorse per aiutare chi non ha un lavoro a trovarlo?

Si tratta di due questioni completamente distinte. Il contrasto alla povertà non riguarda solo le persone che, temporaneamente, sono prive di un lavoro e che finiscono nella fascia sociale più bassa, ma anche coloro che, per le ragioni più disparate, non sono in grado di lavorare. Cosa ben diversa sono le politiche attive per il lavoro. Faccio notare che, al momento, mancano entrambe, benché qualche misura per incentivare le assunzioni, come le defiscalizzazioni, sia stata introdotta. Resta il fatto che quando si parla di occupazione, la priorità non consiste nell’aiutare le persone ad entrare nel mercato del lavoro.

 

No?

No, occorre anzitutto potenziare la domanda che, attualmente, è decisamente debole. In tal senso, la lacuna del governo, è vistosissima. Servono, quindi, da un lato investimenti e, dall’altro, stimoli ai consumi. Se gli italiani non hanno risorse per consumare, un sistema produttivo come il nostro, sostanzialmente orientato verso il mercato interno, finisce in sofferenza. 

 

(Paolo Nessi)