Recentemente mi è capitato di partecipare a una giornata di lavoro sui servizi all’impiego e sulla cooperazione tra attori pubblici e privati, organizzata in Olanda dalla Commissione europea. Quando è toccato a me parlare della situazione italiana, ho dovuto testimoniare che (purtroppo!) l’unica Regione in cui i servizi all’impiego sono realmente operativi nella loro funzione di promozione dell’occupazione (e non di mera registrazione amministrativa dei disoccupati ai fini di percezione di benefici sociali) è la Lombardia, grazie al decisivo coinvolgimento degli operatori privati. Ho quindi raccontato il funzionamento del programma Dote unica lavoro, avviato il 21 ottobre scorso.
Positivo interesse da parte di tutti i presenti, finché un’olandese mi pone la seguente domanda: ma se la scelta di attivare la dote è libera da parte del cittadino che ne ha i requisiti, come fate ad assicurarvi che coloro che percepiscono benefici sociali si attivino? È stato davvero difficile spiegarle che ciò che per lei era inconcepibile, cioè che un cittadino possa godere di un sussidio pubblico senza che gli sia richiesto in cambio la partecipazione attiva a un percorso di ricollocazione, da noi è la prassi (nonostante le norme dicano il contrario!).
Questo è davvero un tema cruciale: con l’introduzione dell’Aspi e con la prossima fine dell’istituto della mobilità (e della cassa integrazione straordinaria e in deroga), il nostro Paese non può non affrontare il tema dei servizi per l’impiego e del relativo meccanismo di condizionalità, ovvero: non si può più andare oltre con la prassi di pagare un sussidio passivo senza verificare che il percettore si attivi presso un servizio competente nella ricerca attiva di un nuovo lavoro. In questi giorni la Garanzia Giovani, e la sua modalità di implementazione in Italia, sta costituendo l’occasione anche per affrontare questi temi.
Se con la Dote unica lavoro di Regione Lombardia un modello di riferimento per il ruolo che possono giocare i servizi privati si sta delineando, non altrettanto possiamo dire per quanto concerne i Centri pubblici per l’impiego (Cpi). Anzi, ciò che sappiamo con certezza è che non funzionano affatto! Basta leggersi con attenzione lo studio “I centri per l’impiego: alcuni dati su efficacia e spesa” elaborato da Confartigianato lo scorso 11 ottobre, ripreso e commentato da Sergio Rizzo sul Corriere di domenica 24 novembre: solo il 2,9% delle imprese gestisce le assunzioni tramite i Cpi, con un costo per le finanze pubbliche pari a 13.391 euro per ciascun inserimento lavorativo!
Sarebbe delittuoso buttare altri soldi per personale, sedi e strumenti se prima non si stabilisce cosa debbano fare i Cpi e non si riorganizzano conseguentemente i processi di lavoro. Ci sentiamo pertanto di avanzare una proposta. Quasi dovunque in Europa si è deciso negli anni recenti di far coincidere organizzativamente l’erogazione della politica passiva con il servizio pubblico all’impiego: in tal modo ci si è assicurati che il percettore del sussidio passivo fosse anche strettamente monitorato nella sua attività di ricerca attiva del lavoro.
Perché non pensare di fare la stessa cosa anche in Italia, accorpando i Centri per l’impiego all’Inps, una delle poche strutture pubbliche efficaci ed efficienti ? In tal modo potremmo dare all’Inps la competenza non solo sull’erogazione del sussidio passivo, come già avviene oggi, ma anche la gestione della condizionalità, di modo che il cittadino percettore di indennità pubblica sia anche informato, orientato e monitorato nella ricerca attiva del lavoro. Gestibile con un sistema di voucher in capo alla persona, spendibile in parte per remunerare, a processo, i servizi di presa in carico e a risultato raggiunto i servizi di inserimento lavorativo, erogati da operatori privati autorizzati e accreditati, sul modello della dote unica di Regione Lombardia. Vogliamo provarci?