Aspettarsi da Beppe Grillo qualche cosa che non sia una sgangherata provocazione  sarebbe come pretendere che gli asini spicchino il volo roteando vorticosamente le orecchie e la coda. Giustamente   il Premier Enrico Letta ha denunciato una linea di condotta che non porta da nessuna parte, mentre il ministro Enrico Giovannini ha spiegato, sul piano tecnico, che le misure di cui al dl 76/2013 sono distribuite,  con il relativo finanziamento, nell’ambito di un triennio e che, sotto questo aspetto, non sono da buttare via le 14mila domande di assunzione  finora pervenute (di cui 5.300 nel Mezzogiorno). Ovviamente, queste sono le domande presentate; occorrerà valutare la sussistenza dei requisiti richiesti dalla legge, un’operazione che potrebbe anche ridurre il numero degli occupati effettivi. Del resto, Grillo e i suoi non hanno alternative valide da contrapporre, mentre il governo, se non altro, ha dimostrato, che, sia pure in una fase di crisi economica durissima, il mercato del lavoro non è come una notte in cui tutte le vacche sono nere, ma include una domanda di occupazione (anche giovanile) che sovente non è in grado – per tanti motivi, oggettivi e soggettivi – di intercettare l’offerta.



Proprio perché sappiamo, allora, che l’occupazione non si crea per  legge; proprio perché aborriamo come la peste bubbonica la demagogia e il populismo, prendiamo atto delle dichiarazioni del governo e attendiamo fiduciosi che possa determinarsi, entro breve tempo, quella ripresa economica di cui si avvertono, qua e là, i primi vagiti, dalla quale dovrebbe arrivare poi una maggiore disponibilità delle imprese ad assumere. Sempre che, naturalmente, il quadro politico acquisisca una condizione vera di stabilità, che non dipenda più, come ora, solo dalla capacità di Letta di accontentare, a fatica, sia il diavolo che l’acqua santa all’interno di una maggioranza rissosa e propagandista di se stessa.



La stabilità non ha nulla da spartire con l’immobilismo. È venuto il momento, per salvare la legislatura e svilupparne tutto il potenziale, di un’azione politica portata avanti da una maggioranza e da un esecutivo riunificati nei progetti e negli intenti, per tutto il tempo, almeno, in cui ciò sarà possibile. Il dovere di cronaca, tuttavia, ci induce a notare qualche discrepanza all’interno del governo e dello stesso dicastero del lavoro.

Dell’argomento, con toni la cui diversità/uniformità può essere apprezzata solo da un intenditore, il sottosegretario Carlo Dell’Aringa ha parlato in una recente intervista ad Avvenire confermando che arrivano all’Inps 800-1000 domande al giorno per gli incentivi all’assunzione dei giovani, ma ha riconosciuto che “i primi incentivi stanziati per il Mezzogiorno, a giugno, sono stati poco utilizzati e sulle assunzioni dei giovani le imprese vanno con i piedi di piombo” in assenza di una ripresa dei consumi, il cui arrivo doveva essere affidato al taglio del cuneo fiscale e contributivo, quell’inafferrabile “Primula rossa” rintanata nella legge di stabilità (“Chi egli sia nessun lo sa, dov’egli sia nessuno lo dice…”). Intanto, la Struttura di missione presso il ministero del Lavoro ha portato a termine l’incarico di predisporre un documento preparatorio  del piano per la “Garanzia giovani”, con l’obiettivo di offrire prioritariamente una risposta ai giovani stessi che, anno dopo anno, si affacciano al mercato del lavoro dopo la conclusione degli studi.



L’operazione, che partirà l’anno prossimo sotto l’egida dell’Unione europea, con l’apporto di 1,5 miliardi in due anni, potrebbe costituire un punto di svolta nelle politiche attive del lavoro mettendo finalmente alla prova, in modo sinergico, i centri pubblici per l’impiego e le agenzie private, inducendoli a perseguire il risultato quale condizione del finanziamento. Evitando soprattutto di assumere nuovi operatori nei centri pubblici con il pretesto che da noi il loro numero è largamente inferiore a quello di altri paesi europei.

Le parole d’ordine tra il settore pubblico e quello privato devono essere: divisione dei compiti ma integrazione delle funzioni; collaborazione; reti; sussidiarietà. Al sistema pubblico – come elemento unificante – deve essere riservato al massimo la presa in carico del giovane, ma il suo placement deve essere affidato a chi, in quella determinata realtà, è in grado di farlo nel migliore dei modi, quanto al risultato: in generale, le agenzie private. Analoghe considerazioni valgono per i percorsi formativi. 

Tutto bene allora?  Attendiamo esiti più definiti e consolidati. Restiamo dell’opinione, però, che nessun vantaggio derivante da un incentivo economico sia in grado di superare lo svantaggio intrinsecamente connesso a un disincentivo normativo (in particolare, la rigidità in uscita).  Tale considerazione ci induce a chiedere al ministero del Lavoro dove sono finiti i contratti Expo, la sola misura che avrebbe avuto un carattere strutturale, seppur limitato nel tempo, nell’ambito di quelle del pacchetto Giovannini. Purtroppo non se ne parla più benché ancora una volta dobbiamo constatare che, per dare lavoro, è molto più utile togliere di mezzo – per di più senza oneri – qualche opprimente vincolo normativo all’assunzione (e alla risoluzione del rapporto), piuttosto che distribuire incentivi economici con l’ossessione della stabilità d’impiego.