Fermare il declino del nostro Paese. Invertire la rotta. Tutti d’accordo, a parole, ma poco o niente si fa. Come per le ingiustizie e contraddizioni ogni giorno denunciate: tutti si scandalizzano, ma nulla succede. Puro immobilismo, se non, al fondo, un diffuso menefreghismo del “si salvi chi può”. Compresi i privilegi scambiati per diritti.
Eppure le statistiche ci inseguono, quasi quotidiane. Con fotografie impietose. Per il mondo della formazione, cioè scuola e università, in relazione agli sbocchi occupazionali, i dati relativi ai 34 paesi dell’Ocse, cioè a quelli più sviluppati, dovrebbero costringere a un netto cambio di rotta. Invece? Niente.
A livello di formazione, dicevo, l’Italia è in fondo a tutte le classifiche: quintultima per livello di istruzione della popolazione, dietro alla Grecia e davanti a Spagna, Messico, Portogallo, Turchia. È 27esima per le competenze cognitive dei quindicenni (su lettura, matematica e scienze), addirittura ultima per competenze della popolazione adulta. Per gli sbocchi occupazionali, cioè del mondo del lavoro (tra i 15 e i 64 anni), siamo quartultimi.
Che fare? Doveroso, per noi, è il confronto con la Germania, anche per la comune matrice manifatturiera. Impietoso il confronto tra il loro e il nostro sistema scolastico e universitario. Meglio non dare i numeri, per carità di patria. Inutile, di tanto in tanto, invocare le nostre eccellenze. Perché sono, appunto, delle eccezioni. Conta cioè la qualità media. Perché le eccellenze sono indice, anzitutto, di talenti che, a essere sinceri, quasi non abbisognano del “valore aggiunto” di una scuola o di una università per esprimersi. In poche parole, è facile insegnare ai bravi, motivati, ben sostenuti dalla famiglia, continuamente stimolati con proposte aggiuntive, cioè extra i curricoli ordinari.
Da alcuni anni mi sono convinto che, al di là delle retoriche, le nostre scuole e università non garantiscono reali pari opportunità, non sono cioè “democratiche”. Per tutti. Basta dare un’occhiata ai dati sulla mobilità sociale.
Ci vorrebbe un cambio di marcia. Una sana rivoluzione. Centrata sulle domande di innovazione, non sulla sola autoreferenza della offerta. Con verifiche dei risultati in progress. Chi cioè ha la responsabilità di governo di un sistema non può all’infinito inseguire il “dimmi quello che vuoi sentirti dire”. Perché governare è anticipare, con coraggio, le aspettative e le speranze vere e profonde.
Così si diventa credibili. Dicendo la verità e proponendo, secondo pari dignità, anche quello che costa, non solo quello che conviene. Per il bene comune.