Il 5 agosto 2011, mentre sui mercati finanziari imperversava la fuga dei capitali esteri dai titoli del debito pubblico italiano, la Bce scrisse una lettera al Governo italiano, per indirizzarne le mosse. Proviamo a rileggerne la parte relativa agli interventi suggeriti per riformare il mercato del lavoro.

“Nell’attuale situazione, riteniamo essenziali le seguenti misure per accrescere il potenziale di crescita: a) […]; b) C’è l’esigenza di riformare ulteriormente il sistema di contrattazione salariale collettiva, permettendo accordi al livello di impresa in modo da ritagliare i salari e le condizioni di lavoro alle esigenze specifiche delle aziende e rendendo questi accordi più rilevanti rispetto ad altri livelli di negoziazione; c) Dovrebbe essere adottata una accurata revisione delle norme che regolano l’assunzione ed il licenziamento dei dipendenti, stabilendo un sistema di assicurazione della disoccupazione e un insieme di politiche attive per il mercato del lavoro che siano in grado di facilitare la riallocazionedelle risorse verso le aziende e verso i settori più competitivi”.



Cosa è stato fatto di questo programma di lavoro in questi due anni e mezzo? Quasi nulla! È stato introdotto soltanto il sistema di assicurazione della disoccupazione (l’Aspi) e una (sana) restrizione dei contratti precarizzanti (co.co.pro., associazione in partecipazione, partite Iva farlocche, ecc.). Non c’è dunque da stupirsi (purtroppo!) che l’Italia sia rimasto l’unico Paese del G20 ancora in recessione, con prospettive di stagnazione anche per il 2014.



Va però detto, a onor del vero, che la responsabilità in questo caso non è della politica. Anzi, in questo campo la politica ha provato a offrire delle strade da percorrere: pensiamo all’articolo 8 del decreto legge 138/2011, a opera del Ministro Sacconi, in cui veniva dato potere alla contrattazione di prossimità di derogare a tutte le norme di legge, fatti salvi i Principi Comunitari e la Costituzione; oppure a tutto il processo legislativo che è poi sfociato nella riforma Fornero. Ebbene, in entrambi i casi è emerso il forte conservatorismo sindacale, sia di parte datoriale, sia dei rappresentanti dei lavoratori, che si è solo preoccupato di mantenere il più possibile lo status quo.



Solo Marchionne (ostracizzato da tutti!) ha preso sul serio le raccomandazioni della Bce, dimostrando che la contrattazione aziendale è davvero la strada da intraprendere per tornare a investire in innovazione dei mezzi di produzione, dei processi di lavoro e dei prodotti finiti. Arrivando persino a vincere nel 2012, con il sito di Pomigliano d’Arco, il premio “Automotive Lean Production”, conferito ogni anno da una giuria di esperti internazionali alla miglior fabbrica europea.

D’altro canto sappiamo bene che la contrattazione di prossimità (aziendale o territoriale) è ciò che ha consentito alla Germania di affrontare questi anni di crisi economica uscendone addirittura rafforzata nel proprio sistema produttivo. Laddove la predilezione delle nostre Parti sociali per il modello contrattuale centralista e l’ostilità alle proposte di riforma del mercato del lavoro hanno fatto perdere alla nostra manifattura il 25% di produzione industriale rispetto al picco della primavera 2008.

Nel suo discorso di insediamento alla segreteria del Pd, Matteo Renzi ha detto chiaramente che anche il sindacato dovrà cambiare e ha promesso un grande piano per il lavoro entro il prossimo primo maggio: riusciranno le Parti sociali a giocare d’anticipo con proposte innovative o aspetteranno ancora una volta le proposte della politica per poi opporsi? 

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